Si è disquisito su quanto l’assenza di corporeità, di fisicità, intesa non solo come mera presenza ma come sguardo, tatto, udito possa limitare la vera conoscenza dell’altro. Quindi, quanto l’altro con cui comunichiamo è davvero l’altro e non un altro su cui proiettiamo, cosa che sempre accade ma qui in maniera più massiccia, la nostra fantasia, la nostra fantasia dell’immaginarlo, del vederlo, del sentirlo, del dargli un volto, qualora non ci si sia visti. E si assiste però ad un fenomeno particolare che è quello della dimostrazione dell’affettività. Affettività che, virtualmente, spesso, viene espressa in modo più massiccio che non nella realtà; nella realtà difficilmente con una persona che conosciamo da poco ci lanciamo in esternazioni legate a gesti fisici (abbraccio o bacio) piuttosto che a comunicazioni affettive, i nomignoli (tesoro, caro).
Ecco mi sembra di aver notato come, senza nessuno studio alla base per carità, tutto ciò nel virtuale si amplifichi e quindi è come se l’assenza di fisicità, portasse un incremento di affettività dimostrata, riferita, esplicitata e ricercata ovviamente.
Come se il non poter vedere l’altro, portasse paradossalmente a sentirlo più intimo; ecco, la virtualità crea più intimità, intimità di testa ovviamente, un’intimità che ci lascia liberi dall’altro e quindi liberi di esprimere. Liberi di esprimere ciò che non osiamo esprimere nella realtà o liberi di amplificare ciò che nella realtà è il nostro normale comportamento? Fatto sta che spesso questo è quello che ho osservato accadere. E allora si legge nei forum, su Facebook ,nei social network, grandissime dimostrazioni di affetto, abbracci a profusione, baci, coccole, sorrisi.
La parola veicola il gesto, la parola diventa il sostituto di un caloroso gesto o di uno sguardo o di un sentire e in questo senso, forse, deve essere amplificata perché verrebbe da chiedersi, quanto vale una parola rispetto ad un gesto: dire “ti abbraccio o abbracciare, cambia, eppure è più frequente dire ti abbraccio, virtualmente parlando, che non abbracciare davvero la persona.
L’altro giorno mi è successa una cosa strana, che mi ha fatto riflettere su questo argomento. Una mia cara amica, restia a dimostrazioni affettive, molto presente, molto vicina, ma restia a gesti affettivi espliciti, una persona che non dice “Bacio”, “ti abbraccio”. Ecco, l’altro giorno in un messaggio mi scrive “Ti abbraccio”. Non lo noto. Non noto quell’abbraccio come un qualcosa di estremamente eccezionale per quella persona, una dimostrazione straordinaria di affetto nei miei confronti. Ma sorvolo; sorvolo perché per me è diventata la norma dei messaggi virtuali , il leggere certe cose. E allora lei me lo fa notare, in modo risentito, perché non avvezza lei alla comunicazione virtuale come dire “Ecco, non ti sei accorta di questo gesto nei tuoi confronti per me così difficile; non l’hai notato, non l’hai colto nel suo valore, nel suo significato, nel suo peso.” E a quel punto ho cercato di rimediare. La cosa interessante però è il fatto che quando si comunica su due registri mentali diversi spesso le cose assumono un diverso significato. Allora la mia amica che non è virtuale d’abitudine, non ha Facebook, non usa social network, servizi di messaging, chat, ai miei occhi, essendo più avvezza a questi mezzi di comunicazione, era una cosa normale, non straordinaria.
E allora mi chiedo, quanto questa profusione di affettività dichiarata non ci anestetizzi poi rispetto al percepire davvero ciò che è affettivo. Quanto diventi un intercalare, una forma asettica. E allora mi viene da pensare questo. Se assistere frequentemente ad episodi violenti può anestetizzare rispetto all’empatia, al dolore, alla sofferenza che si può provare di fronte ad un episodio violento, mi chiedo quanto assistere alla profusione di affetto verbale virtuale possa anestetizzare rispetto ad una comunicazione un po’ più vera con l’altra persona.
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Sonia Bertinat
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