“Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela ciascuno. Ma se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee.” George Bernard Shaw
Il termine condivisione, nell’era dei social network è un concetto diffusissimo, usiamo quel tasto molte volte al giorno, anche se non sempre se ne coglie appieno la sua importanza. (interessante a questo proposito quello che scrive Andrea Toxiri in questo post).
In psicodramma il concetto di sharing, condivisione, appunto, è uno dei passaggi fondamentali della seduta di psicoterapia di gruppo. Si vivono in gruppo le storie, le emozioni, i percorsi di chi sta “giocando la scena” e alla fine si dà un rimando su ciò che si è vissuto. Un rimando che non è, e non deve essere, un parere o consiglio, un’interpretazione, o peggio, un giudizio su ciò che è avvenuto. [Tweet “Lo sharing è un rimando di ciò che noi abbiamo vissuto”], di quello che in noi è successo durante la scena; delle associazioni che ha attivato in noi rispetto alla nostra vita. In questo modo si arricchisce il gruppo di immagini multiple, diverse sfaccettature di un evento di vita, che, in quanto tale, non ci può vedere come soli spettatori.
Troppo spesso oggi si polarizza sull’oggetto, soggetto o evento osservato la nostra attenzione nel momento in cui esponiamo il nostro “parere”. Parere però che spesso risulta sterile, razionale o troppo di pancia (proiettivo).
Solo nel momento in cui attuiamo un vero sharing arricchiamo noi e l’altro con la condivisione. Se no ci limitiamo a passargli la nostra “mela” (spesse volte non richiesta e non utile).
Lo sharing personale arricchisce noi perché vuol dire che abbiamo permesso alle cose osservate, lette, di percorrere la nostra interiorità, di smuoverne le parti, e uscirne in una nuova luce che dice qualcosa di noi all’altro. In un gioco di specchi, questo dirà qualcosa in più su di sé anche all’osservato.
Questo farsi percorrere, però, sembra essere vissuto a volte come pericoloso, esporsi sembra renderci vulnerabili perché inevitabilmente mettiamo un pezzo di noi in comune con l’altro. L’altro deve prendersene cura e siamo sicuri lo farà?
E’ un passaggio faticoso, che richiede impegno ed energia. Ma se lo mettessimo in pratica nella vita di tutti i giorni, forse, si eviterebbero i conflitti simmetrici, gli scontri all’ultimo sangue.
Risiede nel piccolo gesto quotidiano del sostituire l’ “hai sbagliato” con “anche io ho fatto questo ma in modo diverso”. Il primo rimando, oltre a colpevolizzare il ricevente, non apre il confronto, ci gratifica solo in modo narcisistico nell’opporci all’altro incarnando il ruolo di “colui che non ha sbagliato”. Ma in questo modo buttiamo via, neghiamo, la possibilità di vedere in noi il ruolo di “colui che può sbagliare” perdendo un pezzo della nostra complessità.
Tutto ciò implica una funzione particolare che è quella dell’ascolto dell’altro per poter poi ascoltare cosa succede dentro di noi e, solo allora, esporre il nostro contributo.
Ho una nonna sordastra che, non per mancanza di volontà ovviamente, tende ad ascoltare l’altro anticipando mentalmente quello che pensa gli stia dicendo o per dire secondo delle categorie di eventi che si è costruita per necessità e per semplificare le proprie interazioni. Abbiamo da tempo imparato che se dobbiamo comunicarle qualcosa di complesso o di inatteso dobbiamo scriverglielo dandole così la possibilità di ascoltare il messaggio che vogliamo passarle senza attivare le sue categorizzazioni semplificanti. Lei stessa si è attrezzata con bloc notes e penna sempre pronta da offrire nei casi più difficili da comprendere.
Perché questo esempio? Perché creare lo spazio, la disponibilità e la possibilità per l’ascolto, è un’azione relazionale e non individuale. Se, invece, pensiamo sufficiente far sentire al mondo la nostra voce, senza ascoltare, ci ritroveremo in un mondo di soliloqui. Chi frequenta un po’ i social network può vedere quanto questo meccanismo sia sempre più presente. Si interviene per pontificare il proprio parere ma non ci si dà troppa pena di approfondire ciò a cui il nostro parere si appoggia.
Da qualche mese partecipo al progetto #adotta1blogger di Paola Chiesa, dove ho conosciuto professionisti di altri campi dalla psicologia, come Andrea che ho citato sopra o Fabio Piccigallo che mi ha permesso di trasformare il mio blog in questa nuova veste, che mi hanno permesso di uscire dal mio orticello “psi” per abbracciare saperi diversi. Un percorso arricchente che mi ha dato la possibilità di guardare dal di fuori il mio essere sul web, sui social. Ed è sempre caratterizzato da sharing, lo scambio, o ci si sforza di farlo. E per citare Andrea
“la prossima volta che stai per condividere un post di un blogger fermati tre secondi prima di premere il tasto, fai un lungo respiro e pensa a quello che stai per scatenare”
E ribadisco, dovremmo applicarlo anche nella vita quotidiana.
Sonia Bertinat
Ultimi post di Sonia Bertinat (vedi tutti)
- La fatica del cominciare - 5 Marzo 2022
- “Game Hero” contro il panico morale verso i videogiochi - 16 Novembre 2021
- Umanità digitale - 29 Ottobre 2021
Comments 3
Pingback: Specchi riflessi: i commenti sul web - Identità in gabbia di Sonia Bertinat
Pingback: Ciak! (Collabor)Azione! - Identità in gabbia di Sonia Bertinat
Pingback: #Adotta1Blogger perché fare rete amplifica - Identità in gabbia di Sonia Bertinat