Sono andata solo oggi a vedere “Inside out”, il film evento della Disney/Pixar. Ero decisa, a priori, che non avrei scritto nulla in materia, essendo il web pieno già di recensioni approfondite su questo film. Però, dopo averlo visto, c’era qualcosa che spingeva dentro. Ho deciso quindi di scrivere qualche riga in merito per unire i due filoni dicotomici (bello/brutto) in cui sembrano dividersi gli articoli che ho letto (ammetto dopo aver letto il post di Maria Cristina Pizzato, i cui consigli non ho sicuramente seguito appieno).
Avevo delle aspettative molto alte, alimentate dai pareri entusiasti di molte persone che conosco. Ero particolarmente attratta dalla promessa di una visione intrapsichica della protagonista, visione costruita a partire da illustri consulenti come Ekman, studioso delle emozioni e delle espressioni facciali che le esprimono. Ma forse da elevate aspettative è più facile cadere. e quindi eccomi qui, rotolando giù, a riorganizzare alcuni pensieri scaturiti sia dalla visione del film, sia dalla lettura di molti post a tema che avevo lasciato da parte per non esserne influenzata.
Vediamo, in primis, cosa non mi è piaciuto (condivido molto di quanto scritto in questo articolo e ne riprenderò alcuni punti) nella costruzione della realtà intrapsichica:
- Il ruolo egemonico delle emozioni nella costruzione della personalità. La nostra personalità è un amalgama, per semplificare, che unisce sì le esperienze e le emozioni, ma anche ciò che ci viene tramandato psichicamente, gli investimenti che sono fatti su di noi, le rielaborazioni spirituali/filosofiche sul nostro essere nel mondo. Il rimando genitoriale che, nel momento in cui sono al comando le emozioni diverse dalla gioia, Riley non sia più lei, non la si riconosca più, è ovviamente una visione parziale e pericolosa della complessità della personalità soprattutto di una preadolescente. La rappresentazione apparentemente eterogenea dell’interiorità di Riley è principalmente mentale, cognitiva. Pur nominando il subconscio, questo risulta essere un luogo profondo (e va bene) e grigio. Una sorta di “discarica” (termine usato da un’amica di mia nipote con noi al cinema) in cui tutto è indifferenziato e inutile se non come perturbatore. Unico elemento utile è la macchina immaginaria che riporta Gioia in superficie ma che vi arriva a pezzi e inservibile.
- il ruolo della Gioia come primus inter pares, prima emozione a “nascere” che si arroga il diritto di decidere come e in che modo le altre emozioni (Rabbia, Disgusto, Paura, Tristezza) debbano intervenire nella mente di Riley. Un personaggio che ho trovato esasperante nel voler limitare l’intervento degli altri. Emerge solo la Tristezza come ruolo importante, benché riconosciuto all’ultimo. Le altre emozioni sono più dei disturbatori, rimanendo in secondo piano. Persino la paura ha un ruolo assolutamente marginale. Vengono poi escluse due emozioni base (Disprezzo e Sorpresa) e qui trovate la spiegazione di questa esclusione nelle parole dei consulenti tecnici (ringrazio Fabio Piccigallo per avermi segnalato l’articolo).
- come dice l’articolo di cui sopra, la visione di una tabula rasa durante la fase gestazionale, cosa che sappiamo non essere vero. Le emozioni cominciano a prendere un nome nell’interazione in primis coi genitori che traducono i vissuti del bambino in parole che le identificano. Ma le emozioni, legate alle sensazioni inizialmente, nascono prima. Come dire che le Americhe esistevano ben prima che gli esploratori Europei le “scoprissero” e nominassero.
Visto però che non mi piace vedere solo un aspetto negativo e visto che degli spunti interessanti li ho trovato, vediamo ora cosa mi è piaciuto:
- l’idea del sogno come riorganizzatore immaginale dei nostri ricordi, delle nostre esperienze e dei nostri vissuti, benché ne manchi l’aspetto teleologico.
- il messaggio, più che mai utile in una società consumistica che mira alla felicità, allo star sempre bene (pensiamo all’abuso di psicofarmaci che attenuino i nostri momenti negativi) che non possiamo essere sempre felici, perché voler essere sempre felici implica avere una interiorità monocolore, per quanto splendente sia. Perché nella nostra interiorità devono trovare posto, essere dotate di senso anche le nostre parti negative, i nostri vissuti più oscuri. Il rischio è quello di non poter maneggiare le emozioni altre dalla gioia e di precipitare una sorta di ‘alessitimia, con l’incapacità di vivere e riconoscere le emozioni. Nel film le stesse emozioni subalterne non sanno bene come agire perché abituate a soggiacere ai voleri della Gioia imperante. Il Dio Sole (le sfere gioiose brillano di luce gialla) che non vuole contemplare l’oscurità (la Tristezza, suo opposto, è monocolore, bluastra) a meno che non la decida lui. La riabilitazione della Tristezza, concessa dalla Gioia che a malincuore concepisce di non poter bastare a sé stessa, è un primo passo per recuperare la pienezza del nostro essere. Ma come metafora ovviamente di una modalità di integrazione di parti luminose e parti oscure.
- collegato a questo emerge il ruolo genitoriale. Genitori presi dalle loro difficoltà che inviano alla figlia il messaggio di essere serena e sorridente per non dar loro un peso ulteriore (la madre la ringrazia per essere sempre e comunque sorridente). Questo impedisce loro non solo di prefigurarsi il disagio che la bimba poteva vivere ma addirittura di coglierlo, attraverso i chiari segnali inviati da Riley. Fino a che questo disagio raggiunge un punto di rottura
in cui solo il ritorno al luogo in cui si era felici pare poterlo sanare. L’accoglienza da parte dei genitori del disagio della figlia, il loro riconoscerlo e soprattutto condividerlo in quanto disagio vissuto da loro stessi sarà il fattore che permetterà a Riley di vivere la sua malinconia dignitosamente e togliendola dal suo isolamento emozionale.
Sicuramente ho trascurato altri aspetti. Voi quali aspetti avete amato e quali meno? Se volete scriveteli nei commenti!
Sonia Bertinat
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Comments 5
Ciao Sonia, ho letto d’un fiato la tua recensione e ne ho apprezzato il taglio professionale e la tua capacità di spiegare in termini semplici concetti molto complessi.
Secondo me è ovvio aspettarsi dei limiti da un film – tanto più se è un cartone animato di 1 ora e mezza scarsa. Io – da spettatore non “tecnico” – ne ho apprezzato moltissimo il messaggio e la capacità di far riflettere finalmente sulle emozioni, in una società che vuole essere rappresentata metaforicamente dall’io interiore di Riley – dominata com’è da una gioia artificiosa e totalizzante.
Nel vederlo, in effetti, anche io mi ero soffermato su alcuni aspetti un po’ dubbi (come la visione del pensiero razionale non come sfera autonoma, ma come sintesi delle emozioni, o la rappresentazione del tutto parziale e numericamente insufficiente di queste ultime). Però devo dire che queste considerazioni per me sono passate in secondo piano, di fronte alla bellezza della storia, capace di emozionare e far riflettere. Sì, posso dire che decisamente mi è piaciuto. Nonostante tutto. 🙂
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Grazie per il tuo commento, Fabio. Purtroppo io ho visto il film attraverso la lente della deformazione professionale che mi ha fatto sobbalzare di fronte al tipo di lettura data dell’interiorità umana. Ma ammetto che il mio sobbalzare è dato principalmente dal fatto che la mia formazione è diversa da quella dei consulenti del film. Come ho scritto nei motivi per cui mi è piaciuto, condivido con te i motivi di elogio del film. E il fatto di vedere mia nipote a bocca aperta (non solo per mangiare i popcorn 😉 ) per tutto il tempo e il suo entusiasmo alla fine mi ha fatto capire che i messaggi passano e le emozioni, appunto, vengono sollecitate. Lei poi ha 10 anni e mezzo per cui come poteva non identificarsi con Riley? Siamo poi d’accordo sul fatto che un film non può essere esaustivo di tutti gli aspetti per le necessità della drammatizzazione.
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Riley. E bisessuale
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Buongiorno Pietro, non ho ben inteso il commento. E’ un motivo per cui non le piaciuto o una precisazione sull’articolo?