Frustrazioni, delusioni, debolezze sono esperienze che tutti abbiamo fatto nella nostra vita.
Il bambino non le tollera e tende ad eliminarle non potendo differire la gratificazione. Sono i genitori, allora, che si fanno carico di queste frustrazioni, le accolgono, le elaborano e le ritrasmettono al bambino in modo per lui “digeribile”. In un continuo equilibrio tra gratificazioni e frustrazioni il bambino interiorizza e sviluppa le proprie strategie di coping (far fronte a).
Questo processo fa si che diventando adulti si riesca a tollerare maggiormente le frustrazioni, a elaborarle e non vomitarle sugli altri.
C’è però un limite individuale nella tolleranza alla frustrazione che può essere superato, di cui non ci si rende conto e si perde il polso.
E’ a quel punto che l’altro diventa la pattumiera delle nostre insoddisfazioni, se non il colpevole in molti casi, il capro espiatorio che arriva ad essere identificato come colui che è responsabile di ciò che ci manca.
Viviamo in anni di forte crisi, lo sappiamo bene, lo viviamo quotidianamente. E questo clima di precarietà, di insicurezza abbassa notevolmente il nostro livello di tolleranza alla frustrazione.
Ed ecco i capri espiatori che si moltiplicano, soprattutto quando non hanno alcuna responsabilità della nostra condizione.
Possono essere gli stranieri che viviamo come usurpanti spazi nostri o il collega che ha avuto successo nel lavoro. L’altro diventa carnefice, l’invidia diventa azione distruttiva.
Ci si barrica dietro la nostra posizione vittimistica, assediati da nemici che non sempre sono tali, attribuendo loro tutte le responsabilità.
Questa condizione passiva, che come gli istinti più primitivi può scatenare una aggressività difensiva ma non proattiva, non ci permette di progredire, di migliorarci ma mira solo all’annientamento, allo svilimento del nemico. Senza di esso staremo bene, avremo un lavoro, saremo felici e realizzati.
Lungi da me fare una analisi sociologica che non mi compete, voglio soffermarmi sui processi psicologici che portano a questo e sulle loro conseguenze.
I fortini dietro cui ci barrichiamo sono fortini mentali (che spesso molti cavalcano per fini opportunistici) che ci isolano e ci fanno sentire soli e inermi.
Si tende quindi ad associarsi solo a chi ha un fortino come il mio, che rafforza solo le difese ma non ha in sé nulla di propositivo.
Rifiuto tutte le motivazioni razionali che contrastano il mio rancore, motivazioni che vanno ad assommarsi a ciò che combatto.
E la forza dato dalla condivisione dei fortini porta al farsi giustizia da sé, all’organizzare ronde mediatiche per stanare i nemici nascosti. Questo però lungi dal rasserenarci o tranquillizzarci, induce un’acutizzazione del rancore, perché sì, prima il nemico lo immaginavo, ora l’ho trovato, esiste e quindi AVEVO RAGIONE. E via ad un’escalation di rabbia e di rivendicazione che non possono che intossicarci fino a perdere persino noi stessi.
L’esternalizzazione del nemico (locus of control esterno) non può che deresponsabilizzarci da ciò che potremmo fare per risolvere da noi le nostre difficoltà. Il concetto di Empowerment Psicologico mira a riportare il locus of control all’interno della persona:
La definizione più sintetica e comune di empowerment psicologico (di una persona rispetto ad un certo oggetto od aspetto od area specifica) è “senso di padronanza e controllo su ciò che riguarda la propria vita”
Si tratta quindi, quando si parla di empowerment “psicologico”, di “qualcosa” che è intrinseco nel soggetto e che riguarda la sua relazione con parte del mondo; di qualcosa di soggettivo (un sentimento, un vissuto di sé); di qualcosa che si riferisce non alla totalità ma ad un’area specifica della vita della persona; di qualcosa che riguarda l’uso che il soggetto sente di sapere e poter fare delle proprie risorse personali e delle risorse che può acquisire.
Naturalmente l’empowerment in senso completo sarà dato dalla somma e dalla sinergia dell’empowerment “psicologico” e dall’empowerment “oggettivo-ambientale” (le risorse e le possibilità fornite/consentite dall’ambiente). (fonte; sottolineature mie)
Sviluppare il proprio empowerment nel senso succitato implica allo stesso tempo di misurare, calibrare e a volte riscoprire la propria resilienza individuale.
La resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo. (fonte)
E’ quindi fondamentale passare da una posizione difensiva, passiva e, per certi versi, depressiva ad una posizione attiva, aggressiva, nel senso proattivo del termine, adgredior che letteralmente significa «avvicinarsi» (Treccani) e, per quanto possibile, ottimista.
In questo senso si costruiscono, per sé e nell’unione con gli altri, non fortini ma rampe di lancio, porti da cui partire. Se sei in un fortino di sicuro ti stai dicendo “Parla facile, non sa come sono sfortunato io”. Ma se lo si è pensato vuol dire che puoi fare un tentativo di scendere la scaletta, chiudersi la porta alle spalle e provare a guardare il mondo e gli altri da un’altra prospettiva: puntare lo sguardo non (solo) sulle frustrazioni limitanti ma sulle nostre capacità interiori di farvi fronte, sulle persone che possono rinforzare tali capacità.
Immagine in evidenza: illustrazione di Gustave Doré

Sonia Bertinat

Ultimi post di Sonia Bertinat (vedi tutti)
- La fatica del cominciare - 5 Marzo 2022
- “Game Hero” contro il panico morale verso i videogiochi - 16 Novembre 2021
- Umanità digitale - 29 Ottobre 2021
Comments 2
Pingback: autoboicottamento: pensiero limitante dei pensieri
Pingback: Accontentarsi o essere contenti - Identità in gabbia di Sonia Bertinat