Giorni fa una carissima amica di Roma mi ha mostrato alcune foto realizzate durante la visita alla mostra The Art of the Brick di Nathan Sawaya e quelle della sala dedicata a La Condizione Umana mi hanno entusiasmato non poco.
Come sa bene chi ha letto un po’ di cose su questo blog, mi piace attingere da vari contenitori per i miei spunti di riflessione in questo caso quello dell’arte, in altri, cinema e letteratura, Le immagini soprattutto hanno un profondo potere evocativo, decisamente superiore alle parole.
Quindi come non cogliere l’occasione di far giocare un po’ le idee in testa guardando le foto di una mostra che avrei voluto molto vedere?
La lettura che vi propongo è ovviamente soggettiva e fa riferimento, per le emozioni che ha suscitato in me, e, probabilmente, per una buona dose di deformazione professionale, ad un simbolico percorso psicoterapeutico.
Quindi, come l’inizio della mostra invita a fare, sedetevi accanto a me in questo virtuale viaggio attraverso la condizione umana, dove troviamo persone costruite con piccoli pezzi di Lego, micro tasselli del corpo e dell’anima che ci rendono al tempo stesso così plastici e così fragili.
Apparentemente, ad una prima scorsa delle foto, ne emerge un quadro tendenzialmente pessimista dell condizione umana, appunto.
Troviamo persone che soffrono per la perdita di una persona cara
per delle ferite ancora aperte
per dolori fisici o mentali
perché legati o sospesi in in situazioni di cui hanno perso il controllo.
La mostra però ci fa vedere anche (perlomeno nella mia particolare lettura) che dalla sofferenza, dalle situazioni statiche che ci ingabbiano, si può uscire. Come?
Innanzitutto dobbiamo trovare la forza e il coraggio di uscire dal nostro guscio, trovarvi uno squarcio nella superficie dell’armatura che abbiamo costruito per proteggerci ma che alla fine ci ha imprigionato, far fuoriuscire tutte quelle scorie emotive che da troppo spesso ci portiamo dentro
e guardare attraverso di essa, trovando tutta la forza per oltrepassarla
sconfiggendo la paura della disintegrazione, ma consapevoli che in quel passaggio perderemo pezzi dell’armatura che fino ad allora ci ha avvolto.
E forza ce ne vorrà molta: senza l’armatura la nostra carne emotiva sarà viva, esposta, fragile, e la tentazione di farci trascinare di nuovo dentro dalla paura, dalla promessa di tranquillità, sarà sempre con le mani su di noi in questo momento di passaggio.
Un’altro sforzo sarà quello di esporre il nostro viso, la nostra identità celata sotto la maschera.
Solo a questo punto, raggiunta la tranquillità del nostro nuovo essere, possiamo cominciare a riscoprire, a tirar fuori la ricchezza delle parti che risiedono in noi, Sfaccettature della personalità che se integrate ci permettono di raggiungere il nostro vero essere.
Parti con forme e colori diversi, ma tutte a noi necessarie per arrivare a sentirci completi.
Costruire così, a partire dalle risorse che erano già in noi ma che non osavamo/sapevamo/potevamo sfruttare, la via per poterci innalzare con tutte le nostre luci e tutte le nostre ombre verso la nostra realizzazione.
E ritrovare, nel nostro vero essere, la serenità a lungo ricercata.
Le foto sono state realizzate all’interno della mostra in quanto consentite esplicitamente dal regolamento dell’allestimento. Per maggiori informazioni potete andare sul sito della mostra.
Sonia Bertinat
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Comments 2
ma che particolare questa mostra! molto bella… e hai dato una lettura che fa riflettere…. proprio il corso della presa di consapevolezza…
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Grazie mille Alessia, e pensa che la mostra (purtroppo) non l’ho vista ma ho solo potuto vedere le foto che mi ha mandato un’amica!
Ovviamente se arriverà a Torino la andrò a vedere sicuramente.
Purtroppo è terminata se no ti consigliavo di vederla visto che sei di quelle parti 😉