cura delle parole

La cura delle parole

Il mio è un lavoro che usa le parole come veicolo dell’esperienza e dell’interiorità di chi si affida a me. E’ quindi una cura delle parole nel senso di “con le parole”.

La parola però deve essere anche curata, nel senso di averne cura. Perché ciò che veicola è prezioso, privato, intimo. E perché trovare le parole giuste per veicolarlo è il modo migliore per rendergli giustizia.

In un intervento sulle Identità sessuali tenuto a maggio a Saluzzo con gli studenti delle superiori, ho iniziato sottolineando proprio l’importanza di trovare un nome giusto per le cose, soprattutto per ciò che concerne i vissuti umani.

parole

Sabato 25/11 ho invece partecipato ad un convegno  sul coming out in adolescenza organizzato da Agedo in cui tra i vari interventi ho colto questo aspetto: Le parole servono per definire le cose e per definirsi. Se le parole sono “brutte” non possono essere utilizzate a questo scopo. E rimanere senza parole vuol dire rimanere senza definizioni e di conseguenza senza identità.

E se il proprio sentire rimane innominabile perché la parole è ritenuta brutta dai più e da noi stessi cosa possiamo fare?

Uno degli scopi della terapia è dar voce ai nostri vissuti e alle sfaccettature della nostra identità. Spesso è proprio la difficoltà a dare un nome a ciò che proviamo o sentiamo di essere che crea in noi un vuoto di senso che non può che diventare vuoto esistenziale, un malessere che ci impedisce di progredire nella nostra vita.

I termini utilizzati per definire le persone spesso vengono modificati (pensiamo all’handicappato che diventa disabile e poi diversamente abile per fare un esempio) non perché di per sé siano sempre errati o svalutanti ma perché spesso assorbono in sé i significati negativi dati da stereotipi o ingiurie (il termine gay ad esempio, utilizzato “scherzosamente” in senso negativo come “non capace di”, “mancante rispetto al ruolo di genere”).

Paolo Rigliano nel suo intervento al convegno parla di modelli di identificazione

“Se manca la possibilità di una grande pluralità di modelli di identificazione e le figure in cui identificarsi sono limitate o addirittura caricaturali il giovane omosessuale in quali modelli, rappresentazione, immagini di se può ritrovarsi. È quali sono le immagini di valore, valide, costruttive?
Al cuore di tutte le fatiche c’è il problema cruciale della autovalorizzazione, della autostima che è un tutt’uno con la sicurezza in se stessi. È un compito per tutti ma per le persone omosessuali assume una pregnanza con cui noi adulti dobbiamo fare i conti.
L’adulto deve creare valore, fiducia, stima perché la sua esistenza possa condurre a valorizzare se stessi. Le vie i nessi e le dinamiche che possono instaurarsi sono sottili e impercettibili ma concrete. La fatica principale è questo compito di validarsi, darsi un fondamento sicuro, ribadito e gustato dentro di sé: io ho un valore primario consustanziale al suo essere che viene inquinato da strategie del sistema esistente che è un sistema di negazione e invalidazione del valore. Non solo quindi dobbiamo bloccare questo meccanismo di invalidazione ma promuovere occasioni di validazione.”

E le validazioni passano anche attraverso una cura delle parole, dei termini forniti per definirsi.

Nel suo intervento Federico Ferrari ci dice che

Il coming out è una comunicazione che contribuisce alla definizione dell’identità. Fa sì che ci torni indietro la nostra immagina nelle immagini che ci rimandano gli altri quando raccontiamo la nostra storia.

E un racconto deve essere fatto di parole, di nomi, che ci rappresentino.

Solo dopo che siamo riusciti a trovare queste parole possiamo eventualmente discostarcene se troppo stringenti per il nostro sentire o ampliarle per includerlo.

Nel mio approccio in particolare non è importante trovare la parola “corretta” ma la parola “giusta” per quella persona. Un nome che personalizzi di volta in volta le diverse parti di lei che giocano il loro ruolo in terapia. Ho spesso visto come dare un nome a queste parti, un nome di fantasia anche, le renda più concrete, più comunicabili e comunicanti.

Il nome di un uomo non è come un mantello che gli sta penzolante e che gli si può strappare o cacciare di dosso, ma una veste perfettamente adatta, o come la pelle concresciutagli che non si può graffiare senza far male anche a lui.
(Goethe)

Ed è da questo gioco delle parti che si nominano a vicenda che si può ricostruire la nostra storia e la nostra identità.


Immagine in evidenza: Jaume Plensa, Nomade, 2010, Porto Vecchio di Antibes (foto mia)

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Sonia Bertinat

Psicologa Psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico. Da anni mi occupo di dipendenze da sostanza e comportamentali. In parallelo mi occupo di tematiche LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) e dell'impatto delle nuove tecnologie sulla vita intrapsichica e relazionale delle persone.

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