Il teatro può esistere perché esistono tutte e tre le sue componenti (palcoscenico, quinte e pubblico). E sono in molti ad aver paragonato la nostra vita ad un teatro in cui, giocando diverse parti, costruiamo la nostra storia personale.
“Tutto il mondo è un palcoscenico, donne e uomini sono solo attori che entrano ed escono dalla scena. Ognuno nella sua vita interpreta molti ruoli e gli atti sono le sette età della vita.” Shakespeare
Non molti anni fa se mi avessero detto cosa faccio ora avrei detto che erano visionari. Non amavo fare interventi pubblici, non avevo una presenza social. Stavo un po’ dietro le quinte o facevo la spettatrice. Poi ho fatto un’esperienza che ha cambiato il mio approccio con la mia visibilità. Grazie a un corso di Espressione Corporea mi sono ritrovata dopo sei mesi su un palco. E non solo su un palco: cominciavo proprio lo spettacolo. Uno spettacolo amatoriale, per carità, ma che ha dato il via ad un progetto che continuo tuttora e che mi ha portato più volte a “calcare le scene”.
Ho visto che non solo riuscivo a farlo ma che mi piaceva pure!
Sono dovuti passare un po’ di anni da quella prima esperienza ma è stata quella a portarmi a parlare davanti a un pubblico e fare formazione.
Vi chiederete: “Fare formazione non è recitare”. In un certo senso sì. Secondo la metafora per cui la nostra vita è un palcoscenico su cui alterniamo i nostri diversi ruoli (tutti uniti e governati dal perno della nostra personalità, il nostro regista interiore) anche un’attività lavorativa può in senso lato rientrare in questa metafora. Nel mio caso, nel nostro triangolo ideale di cui stiamo parlando, era il vertice che mi mancava a livello di esperienza, quello che non avevo mai osato giocare.
Non si può stare però sempre sul palcoscenico, è importante anche cambiare ruolo e vivere momenti da spettatore o da chi, dietro le quinte, aspetta il proprio turno o dirige lo spettacolo.
Oggi, grazie alla visibilità dei social network, sembra che sia il palcoscenico ad essere non solo molto affollato ma anche l’unico ruolo ambito.
Leggevo a questo proprosito questo interessantissimo articolo di Luca Borghi (di cui vi consiglio la lettura) che analizza proprio l’aspetto di ricompensa narcisistica che i social network forniscono.
I social network ci forniscono un pubblico.
Avere attenzione dalle persone è il massimo e il più istintivo mezzo di gratificazione.
Perché? Perché ci rende felici. Punto.Vogliamo attenzione, pretendiamo attenzione.
Se raccontare una storia è il modo più efficace per ottenere la nostra fetta di attenzione e visibilità, farlo su un social amplifica notevolmente la nostra platea di spettatori.
Sapere che qualcuno ci segue su qualche social network ci rende felici.
Ci fa sentire ascoltati e compresi.
Più persone abbiamo nella nostra schiera di seguaci sui social, più felici, ascoltati e compresi ci sentiamo.
e ancora
[Tweet “I social network hanno successo perchè ci fanno sembrare quello che vogliamo agli occhi di chi ci segue.” by @lukaborghi]
Vogliamo essere presenti, far sentire la nostra voce, possibilmente più forte di quella degli altri. Vogliamo essere visti. Rischiando poi di non sentire di esistere se qualcuno non ci guarda.
Lungi da me sottovalutare l’importanza dello sguardo dell’altro nella formazione della nostra identità e personalità. Da bambini impariamo aspetti importantissimi grazie al fatto che qualcuno ci vede e ci dà gli strumenti razionali ed emotivi per dare forma e contenuto alle esperienze che viviamo. Non siamo poi esseri solitari ma necessitiamo di relazioni e contesti sociali dove lo sguardo dell’altro è importante per modularci e vederci secondo un altro punto di vista.
Il punto sta non tanto in questo, quanto nell’importanza che diamo allo sguardo altrui. Nel momento in cui lo sguardo altrui smette di avere un ruolo relazionale, di condivisione e scambio, diventa mero (unico) rinforzo al proprio esistere.
La nostra identità cresce e si forma grazie allo sguardo di chi si prende cura di noi da bambini. Impariamo chi siamo attraverso ciò che l’altro ci rimanda e ci rispecchia del nostro sentire. Piano piano, attraverso questi rimandi, costruiamo la nostra identità.
Durante l’adolescenza la nostra idnetità in definizione di nuovo risente delle sguardo altrui che la può confermare o disconfermare. Ma un buon processo adolescenziale dovrebbe portare ad una identità adulta sufficientemente solida ma plastica da potersi reggere su se stessa e incamerare ciò che può essere utile per migliorarla.
Il ruolo che attraverso i social diamo allo sguardo altrui rischia di rendere invece fragile la faticosa identità costruita.
Parafrasando impropriamente Cartesio, potremmo dire “sono guardato quindi sono”.
E ci scopriamo così tutti aspiranti attori tesi al palcoscenico sacrificando tutte le nostre parti che necessiterebbero di osservare o organizzare gli aspetti della nostra vita oltre a mostrarli.
E non solo sacrifichiamo delle parti ma rischiamo di perdere consapevolezza di noi e di chi siamo nella costante interpretazione di un ruolo unico che mantiene le caratteristiche che, a nostro giudizio, portano ad essere guardati.
E se non riusciamo ad ambire al palcoscenico facciamo di chi ne calca le scene o demoni da combattere (per non poterci essere noi al loro posto) o dèi da idolatrare (come proiezaione fantastica di un nostro ideale di vita).
Perché sentire di non esistere è un’esperienza dolorosissima in quanto viene a mancare quel perno, quel regista interiore che ci tiene saldi nelle bufere quotidiane. O si arriva a pensare che non sia sufficiente.
Proprio per questo è importante esperire tutti e tre gli aspetti nella nostra vita e se viviamo invece una vita da spettatori o dietro le quinte, ogni tanto osare e salirci sul palcoscenico per provare a “giocare” un’altra parte di noi.
Sonia Bertinat
Ultimi post di Sonia Bertinat (vedi tutti)
- La fatica del cominciare - 5 Marzo 2022
- “Game Hero” contro il panico morale verso i videogiochi - 16 Novembre 2021
- Umanità digitale - 29 Ottobre 2021
Commenta con Facebook!