Anche quest’anno, dal 6 all’8 aprile 2018, ho partecipato agli eventi del Festival della Psicologia di Torino dal titolo “Io non ho paura“; non a tutti purtroppo. Volevo in particolare riflettere sul tema dei confini emerso in particolare dall’incontro condotto da Rocco Ronchi e da Simona Forti dal titolo “Il concetto di confine” e ribadito da Massimo Recalcati in chiusura con la sua Lectio Magistralis “Violenza e terrore“.
“Fare esperienza implica tracciare un confine”
Rocco Ronchi esordisce con questo concetto che pone il tema del confine all’interno dell’intera esperienza umana, quotidiana e storica. Non pretendo di riprodurre l’intero pensiero esposto che poggia sulla metafisica kantiana di cui non ho completa padronanza ma utilizzarlo come spunto di riflessione.
Nella misura in cui siamo soggetti di esperienza sensibile non possiamo che tracciare e ritracciare dei confini. Fare esperienza è determinare un qualcosa come qualcosa, una identificazione, un riconoscimento.
Gli oggetti vengono costruiti mentre facciamo esperienza tracciando dei confini di esclusione ed inclusione. Determinare qualcosa vuol dire immediatamente negare qualcosa in modo attivo, negare che possa essere altro.
Dalle sue parole quindi emerge come noi stessi tutti i giorni, durante il nostro fare esperienza ergiamo dei confini, che poi, si spera, siamo disposti a ridefinire, abbattere, superare, per crearne di nuovi.
Identifica il ruolo del filosofo in una posizione quasi impossibile: tracciare un limite al fare esperienza senza fare esperienza, per poter osservare il processo di costruzione e ridefinizione dei confini dall’esterno. Un’operazione simile alla pittura di paesaggi.
Il pittore del paesaggio non vuole rappresentare la natura nella esperienza ma lo sguardo l’impressione che guarda l’esperienza. Non contano gli oggetti, i muri dell’esperienza ma il limite dell’esperienza. Non le cose ma le cose viste.
Tracciare un confine dell’esperienza però è impossibile.Se fare esperienza vuol dire tracciare confini, identificare, una guerra di inclusione e esclusione, il filosofo si pone sul limite del fenomeno dell’esperienza con una sistematica dismissione di tutte le patrie (che esistono nell’esperienza)
E perché è impossibile? Perché, dice Ronchi, abbiamo assimilato il vissuto di sradicatezza
Dismettere le patrie è esattamente l’azione metafisica. L’uomo non é solo costruttore di muri ma ha la possibilità di trascendere tutti i muri e stare sul limite.
Se non fossimo sradicati da sempre non ci sarebbe patria da sognare. La sradicatezza, l’esodo, il divenire, il cambiamento intesi come un qualcosa che permette l’apparire di feticizzazioni, di patrie perdute.
Un po’ come dire (e spero di non discostarmi troppo nell’associazione) che è la nostalgia a dettare la necessità di mettere confini. L’appoggiarsi al ieri come ideale da riprodurre all’infinito. La tradizione che crea “patria” dove non ci sarebbe stata.
“L’uomo segue l’impulso di costruire nicchie protettive”
Simona Forti introduce il suo intervento a partire dalla lettura di un brano di Primo Levi tratto da “Se questo è un uomo”
La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. (Primo Levi)
La Forti ricorda come nel mondo romano venivano usati due termini per definire il limite:
- Limes: indica la frontiera, ci rimanda ad una separazione più flessibile, è negoziabile.
- Finis: indica il confine, rimanda alla delimitazione con un aratro di una linea retta che si definisce quando una autorità dà un significato politico e morale a questa retta. Al di là della linea retta sta un mondo incivile selvaggio. Confine come barriera e steccato tra civiltà e caos. La connessione tra confini di territori e popolazione è alla base dell’identità nazionale come se fosse realmente dato in natura il rapporto tra territorio e popolazione.
Ed è questo secondo concetto ad essere in giochi in questi tempi.
Con la caduta del muro di Berlinosi è solleticata la fantasia di uno spazio senza barriere. I processi di globalizzazione hanno creato dei problemi ai confini.
Confini prima rigidi e baluardi sedi sovranità statali e identità nazionali si sarebbero fatti liquidi mobili fino a sgretolarsi del tutto.
Ma mai come ora si costruiscono mura e fili spinati. Mettere confini aiuta la messa in scena della maestà del potere.
I muri oggi hanno il significato proclamato di barriere di civiltà, di bastoni eretti da società che seguono le leggi e società incivili. Non per delimitare il gioco tra diverse nazionalità ma per bloccare flussi di persone. Se guardiamo dove si erigono quei muri si erigono in una sospensione dello stato di diritto. Invece che una società aperta creano una identità collettiva controllata con ansia di controllo e paranoica. I muri più che glorificare la magnificenza del potere politico ricordano le formazioni reattive che erodono la sovranità nazionale con una persona di potere degli Stati. Le democrazie vengono giustificate nel nome della protezione della popolazione e i muri sono costruiti con iniezioni di paure che si cementifica come un efficace collante.
Questi, sottolinea la Ronchi, sono confini prigioni, mura erette per proteggere ma che finiscono per creare comunità asfittiche. Servirebbero “pareti con porte”, invece abbiamo muri.
Perché anche l’assenza di limitazioni, le pareti ad esempio, con finestre e porte, è deleteria.
I muri non possono dare sicurezza senza fare dell’ossessione per la sicurezza un modo di vita.
Le pareti creano stanze separate che sono necessarie. Un muro è una barriera invalicabile.
La Ronchi chiude poi il suo intervento con una interessante affermazione sul concetto di multiculturalismo. In questo concetto, infatti, risiederebbe ancora l’errata concezione delle identità come indissolubilmente legate a un territorio. Solo decostruendo questo concetto di identità nazionale, in primis dentro di noi, riusciremo ad incontrare l’altro non come qualcuno da integrare perché di base diverso, ma come un qualcuno che è diverso e uguale a noi in quanto essere umano. Bisogna educare alla disidentificazione, non da noi stessi, non da ciò che ci costituisce, non dalla nostra storia, ma dal fatto che la nostra identità dipenda da un territorio.
I confini psicologici
I discorsi ascoltati in questi due interventi mi hanno fatto riportare il tutto dalla dimensione socio-politica a quella individuale.
Noi cresciamo e formiamo la nostra identità ponendo confini, necessariamente. Confini di inclusione ed esclusione a seconda di ciò che sentiamo a noi più vicino, consono.
Non è porre i confini il problema, anzi è necessario per definirci.
Claudio Widmann nel suo “Pinocchio siamo noi” sottolinea come il processo individuativo abbia una matrice fortemente narcisistica, di accentramento su di sé estromettendo l’altro.
Il problema insorge quando quei confini diventano finis e non limes, quando si irrigidiscono a tal punto da ingabbiarci e non farci più respirare, crescere, cambiare. Diventano prigioni che noi stessi abbiamo costruito.
I confini personali sono necessari per non essere distrutti, annullati da ciò che sta fuori. Ma devono essere una frontiera non una barriera, una frontiera sul cui limite incontriamo l’altro e ce ne facciamo un po’ contaminare come noi contaminiamo lui.
La nostra stessa pelle è il primo confine tra noi e il mondo. Senza pelle le nostre parti interne sarebbero esposte, fisiologicamente e metaforicamente. Saremmo soggetti ad infezioni nel senso di “azione diffusa e minacciosa a danno dell’integrità individuale o sociale”. Ma con una pelle troppo spessa, non ci sarebbe comunicazione con l’esterno, ciò che sta dentro vivrebbe in un ambiente asfittico e rischierebbe di implodere per l’impossibilità di uscire.
Nell’ultimo intervento, Massimo Recalcati afferma come il legame esponga sempre il soggetto ad una perdita. E questo fa paura.
La violenza si scatena nel rapporto con l’altro e diventa fondamentale l’esperienza del confine che delimiti il campo.
Senza confine la vita è disorganizza. Abbiamo bisogno di un confine di un involucro di una forma.
L’irrigidimento del confine in muro rischia di far morire egualmente la vita. Il confine deve avere una certa porosità che permetta il transito.
La vita muore sia per assenza sia per irrigidimento dei confini.
Non si tratta di presidiare militarmente l’identità ma creando un sistema parlamentare democratico. Che si perde nal momento in cui una delle istanze si perde sull’altra.
Marco Aime, antropologo, nel libro scritto con Charmet1 ci dice
Infatti, tra i molti atteggiamenti tipici della gioventú, fatti propri da parecchi adulti, c’è un’insofferenza sempre maggiore nei confronti dei limiti. I limiti, però, sono fondamentali per la costruzione delle identità. Per comprendere chi siamo, dobbiamo conoscere dove è il nostro confine, dove finiamo noi e inizia l’altro. Un limite costituisce una barriera che segna una differenza. Poiché non possiamo essere tutto o tutti, occorre fare scelte, e ogni scelta implica necessariamente una rinuncia.
Conclusione
Concludo questo lungo scritto dovuto alla ricchezza degli stimoli ricevuti in questo pomeriggio di festival con il monito che io ho recepito da questi dialoghi.
Non cediamo alla costruzione di muri, di confini, per paura del rapporto con l’altro; delineiamo piuttosto frontiere protettive ma porose, pareti con mura e finestre apribili e chiudibili a seconda delle necessità. Solo così matureremo quel senso di sicurezza tale da poter incontrare l’altro senza temere di esserne distrutti.
- Aime, Marco; Charmet, Gustavo Pietropolli. La fatica di diventare grandi: La scomparsa dei riti di passaggio (Super ET. Opera viva)
Sonia Bertinat
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