Ho visto un po’ di giorni fa lo spettacolo “Nanette” di Hannah Gatsby (potete vederlo su Netflix o sulla pagina Facebook). Ve lo consiglio anzi, è assolutamente da vedere!
L’ho trovato toccante e vero ma soprattutto spiazzante.
Parla di omosessualità e di genere e della tensione che questi possono creare nella società e tra le persone. Quella tensione che può essere scaricata nella battuta comica. Ma che, forse, non è la via sempre proficua. Perché quella tensione molte persone la vivono sulla loro pelle tutti i giorni e non può bastare una battuta per liberarla.
Rivolgendosi al pubblico, buttando su di esso la tensione, tocca tutti i seguenti temi:
Sessismo e disparità di genere
Lo spettacolo evidenzia come gli stereotipi di genere alberghino ancora nella società e come sia frequente ad esempio il mansplaining (ringrazio la collega Sara Colognesi che tempo fa mi fece conoscere questo termine) la tendenza cioè degli uomini a spiegare le cose alle donne in tono paternalistico (come succede ad Hannah quando un uomo le suggerisce che la sua sofferenza è funzionale al suo spettacolo).
Spesso lei viene scambiata per uomo dato l’aspetto fisico che non ricalca lo stereotipo femminile
“Adoro quando mi scambiano per un uomo perché mi rendono la vita più facile, per un momento ritorno il re della giungla, il maschio bianco etero. Riceverò un servizio decente senza muovere un dito”
Si sofferma sulle battute sessiste ribaltandole sugli uomini e chiede “Non vi fa ridere?”. Il “era solo una battuta” è spesso un modo di veicolare il sessismo verbale impedendo agli altri di indignarsi. Cammina nelle mie scarpe, dimmi come ti senti: fa ancora ridere?
Attraverso la storia dell’arte, intesa come modo di leggere i tempi, evidenzia come alle donne sia stata data una scelta fra soli due ruoli: vergine/santa o prostituta/peccatrice. Due sole opzioni, e se non ci rientri sei sbagliata.
La storia dell’arte mi insegna che le donne tradizionalmente non avevano il tempo per pensare.
E pare che lo pensino anche oggi a sentire il ricercatore del Cern l’altro giorno.
L’arte occidentale è fatta di uomini che ritraggono donne come vasi di carne dove piantare i propri gambi
La donna ridotta a corpo, da ammirare o denigrare come nel bodyshaming, un corpo ad uso e consumo di cui spesso non viene ritenuta proprietaria.
Omofobia
L’omofobia non è libertà di pensiero ma un danno fatto ad altri anche quando non sfocia in violenza agita.
L’omofobia istituzionale che Hannah ha respirato fin da piccola in una Tasmania in cui l’omosessualità era un reato e se eri omosessuale non potevi crescere non pensando di essere sbagliato.
Un bambino immerso nella vergogna non è capace di sviluppare quelle percorsi neurali che gli permettono di provare autostima
Quando si dice di pensare ai bambini, bisogna pensare a tutti i bambini, anche quelli che si discostano da ciò che la società pensa sia la “norma”. Una norma che si dà per implicita, scontata. Come la mamma di Hannah, molti genitori non “prevedono” che il loro figlio non sia etero e cisgender.
Il non avere un posto nella società rende automaticamente dei fuorilegge e per questo puniti.
Creare un posto, soprattutto mentale, per tutti è il modo migliore per arricchire la società.
Violenza
Violenza omofobica, violenza di genere. Violenze che mirano a sancire una supremazia, un potere, ad annientare chi è diverso.
La violenza subita lascia segni che durano molto più a lungo del tempo di guarigione delle ferite interiori che provoca.
Mi ha picchiato a sangue ma non l’ho denunciato alla polizia e non sono andata in ospedale, perché pensavo di non valere nulla.
Il potere, il diritto di far del male a chi si percepisce come diverso è un potere “facile”, perché chi è cresciuto come diverso o debole non ha dentro di sé il potere per ribellarsi.
La violenza non è solo violenza fisica ma anche psicologica e questa non lascia segni visibili, ma li lascia eccome.
Autoironia
Ma è su questo aspetto che voglio soffermarmi di più perché è quello che più mi ha colpito in quanto mi ha spiazzato (ed era questo probabilmente l’intento).
Siamo portati a pensare all’ironia come un buon modo di leggere il mondo e di leggere se stessi. Un modo per alleggerire alcuni aspetti che viviamo come difficili e che diventano comunicabili tramite la battuta ironica.
“Ridere è la miglior medicina, dicono. (…) Ridere fa scaricare la tensione e tenere dentro quella tensione non è per niente salutare. (…) Scaricherete molta più tensione ridendo in compagnia che da soli. La tensione ci isola, ridere ci lega.
Quello che di spiazzante però ci dice Hannah è che l’ironia non sempre è liberatoria, non sempre apre un canale comunicativo che permette di esporci più liberamente.
Lei sostiene che l'ironia, soprattutto quando riguarda noi stessi, la nostra identità e la difficoltà di portarla in giro per il mondo con tranquillità, diventa una copertura che ci soffoca. Share on X
Non è un concetto nuovo per carità, ricalca il personaggio del clown con la bocca sorridente disegnata ma che sotto al trucco è triste.
Quello che mi ha colpito è stato il riflettere su come le stilettate ironiche possano in alcuni casi trovare una barriera formata dall’autoironia stessa e rivolgersi ferocemente verso la nostra più intima parte identitaria al posto di canalizzare la tensione verso l’esterno.
Sapete perché faccio ridere la gente? Perché ho imparato l’arte di smorzare la tensione fin dall’infanzia. E non era un lavoro o un hobby ma una tattica di sopravvivenza. La tensione non dovevo inventarla perché la rappresentavo io. (…) Sfortunatamente la battuta non era così sofisticata da riparare il danno di cui ero stata vittima nella realtà. E’ ora di raccontare quella storia come si deve.
L’ironia, l’autoironia, possono essere un inizio, o un metodo da usare ogni tanto, ma non devono riscrivere la nostra storia, non dobbiamo circoscrivere la nostra identità in una battuta perché ne uscirà ferita.
L’autoironia può aiutarci a mostrare le nostre ferite, ma poi le nostre ferite vanno raccontate perché come dice Hannah
Le battute hanno solo un inizio e un prosieguo, le storie hanno un inizio, un prosieguo e la fine.
E spesso quella fine è il come ci siamo sentiti, qual era il nostro vissuto in quel momento o cosa ci è successo davvero dentro.
Solo da questo si può ripartire.
Devo raccontarla bene la mia storia perché si impara da come la racconti
Conclusione
La diversità è una forza, ci dice Hannah, che sia una diversità di genere, di orientamento sessuale, di etnia. Le differenze ci arricchiscono, l’essere tutti uguali ci omologa, ci rende grigi,
La risata generata dalla tensione può anche essere l’esito di una rabbia repressa. La rabbia e la risata hanno in comune l’unire le persone ma la rabbia è la tensione, non la sua liberazione. Semina odio. Anche se è la rabbia di una vittima
Ridere non è la nostra medicina, la cura è nelle storie che raccontiamo. Aiutatemi ad occuparmi della mia storia.
Tutte le volte in cui fate autoironia e questo non fa calare la tensione che sentite dentro, allora non vi state aiutando. Fermatevi a riflettere e riprendete in mano la vostra storia.
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Sonia Bertinat

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