Per me l’associazione Viola Nicolucci e videogiochi è implicita e automatica da anni. E’ il mio punto di riferimento sulla tematica perché è sempre aggiornata e con uno sguardo e un approccio diverso dalla massa giudicante.
“Game Hero: viaggio nelle storie dei videogiocatori” è il suo primo libro e spero ne seguiranno molti altri.
Ho intervistato ad inizio anno Viola su questo blog e ogni volta che le parlavo le dicevo “Ma quando lo scrivi un libro?”. Ed eccolo, finalmente.
“Game Hero” è un viaggio, un viaggio nelle storie, perché è solo nelle storie che incontriamo davvero gli altri, ci possiamo immedesimare in loro, possiamo rileggere le nostre.
Storie e personaggi sono “schermi” su cui riversiamo le emozioni e i vissuti che magari non riusciamo a mettere in parole. Ci identifichiamo con i personaggi di fumetti e videogiochi quando riusciamo a trovare un pezzetto di noi in quelle storie.
Ma vediamo i punti principali che mi hanno colpito e che evidenziano alcune potenzialità dei videogiochi.
Per conoscere se stessi
L’industria dei videogiochi, immane, ha una componente artistica importante. Musiche, grafiche, narrazioni che li compongono sono un vero esempio di creatività che rendono i videogiochi attraenti, immersivi, verosimili.
Attraverso il gioco è possibile superare i propri limiti fisici e mentali per poter esplorare altri modi di essere.
Questo aspetto in particolare viene attenzionato come preoccupante: vivere online, nel gioco, fa perdere ciò che siamo nella realtà, si dice.
No, oggi non possiamo più parlare di divisione online/offline. Come suggerisce Matteo Lancini, dobbiamo parlare di onlife. La nostra vita ormai (per tutti) si gioca e si sviluppa su più dimensioni senza divisioni o confini.
Esplorare le nostre potenzialità nella “finzione” del gioco può permetterci di implementarle nella vita di tutti i giorni. Ci permette di conoscerci meglio.
Il videogioco è un ambiente sicuro in cui l’errore è permesso in quanto fondamentale per migliorare e procedere nel gioco. È consentito tentare e si può “sbagliare” senza farsi male.
Pensiamo all’uso dei videogiochi in terapia per parlare di sé o per riabilitare competenze, ad esempio.
Attraverso questi artefatti esprimiamo una parte di noi in un contesto sicuro, ad esempio un videogioco ci permette di fare scelte impensabili nel mondo reale e vederne le conseguenze nei confini del digitale.
La nostra identità non ne risulta spezzettata ma arricchita e sfacettata.
Scoprire che ciò che di noi il mondo ci rimanda come un limite, è solo un aspetto di noi, ma ne possiamo scoprire tanti altri.
L’esperienza videoludica richiede un tempo, durante il quale il giocatore entra nella storia, si affeziona e si identifica con l’eroe o un altro protagonista, impara dall’esperienza stessa e questo attiva un processo di cambiamento.
Per socializzare
Spesso l’immagine che si ha dei videogiochi è quella legata alla chiusura. I ragazzi (sì altro stereotipo) chiusi nelle loro stanze “attaccati” al computer o alla console. Se questo poteva essere vero (e non lo è) anni fa, oggi con la modalità multiplayer (la possibilità di giocare online con altri giocatori) ha sfatato questo mito. Nei videogiochi si socializza.
Non è un caso che l’OMS in piena pandemia abbia consigliato l’uso dei videogiochi per mantenere le relazioni: #playaparttogheter ci ha detto.
Nelle storie raccontate nel libro questo aspetto compare molte volte. Persone di tutte le età (esatto!) che hanno mantenuto o mantengono relazioni sociali attraverso le piattaforme di gioco.
Si possono inoltre superare le barriere dello spazio fisico, delle nazioni.
Per il dialogo
Un altro aspetto importante è quello dei videogiochi come medium per parlare di sé. Alcuni protagonisti delle storie raccontate sono riusciti a raccontare di sé, ad affrontare blocchi comunicativi, a trovare linguaggi condivisi funzionali per dare respiro alla propria identità.
Ciò avviene spesso giocando insieme. Si superano i gap comunicativi intergenerazionali. Si trova un terreno comune da cui partire per trovare un punto di incontro e di scambio.
I genitori che giocano con i figli sono un esempio di questo incontro e non a caso, sono situazioni che coinvolgono la maggior parte degli intervistati.
Con lo sguardo volto “altrove” è più facile aprirsi e parlare. È un momento di contatto emotivo anche senza contatto visivo, anzi forse è proprio questo a rendere più facile lasciarsi andare.
Per l’inclusione
In questo libro troviamo persone di tutto il mondo, provenienti da background diversi.
Un grosso limite nella visione dei videogiochi è che siano fatti per e fatti da maschi bianchi occidentali.
Trovare una rappresentatività delle cosiddette minoranze nei videogiochi non è sempre facile.
Leggiamo storie di donne che faticano ad essere prese sul serio nel mondo videoludico, la difficoltà nel trovare personaggi di etnie diverse in cui potersi identificare con ruoli non predefiniti ma plasmabili sulle personali necessità o di altre minoranze (disabilità, lgbtq ecc).
Da tempo si sa che la rappresentatività sociale di una minoranza riduce il minority stress degli appartenenti alla minoranza stessa. Essere rappresentati implica essere visibili e quindi esistere agli occhi degli altri.
“l’ambiente digitale viene vissuto dai giocatori come uno spazio sicuro in cui ci si può conoscere senza pregiudizi. Così nascono amicizie senza stereotipi che intralciano la strada. Ci si conosce nel tempo e solo allora si decide se rivelare genere, età, disabilità o colore della pelle.”
Come lavoro
Sì, si può fare del mondo videoludico il proprio lavoro. Non lo vediamo solo nell’attività pluriennale di Viola e i suoi partner internazionali dal punto di vista terapeutico ma anche in tante altre forme.
Si può lavorare scrivendo dei videogiochi come scrivendo le narrazioni nei videogiochi
Si lavora producendoli e come detto sopra, le professionalità tecnico/creative coinvolte sono molte.
L’industria videoludica ha molti settori che possono essere esplorati da chi vuole lavorarci.
Purtroppo gli stereotipi su “chi” può lavorarci (sia interni sia esterni) sono ancora molti.
In questo libro vediamo che non ci sono persone, generi più adatti al mondo dei videogiochi.
Conclusioni
Viola e le persone che incontriamo in questo viaggio alla scoperta del mondo dei videogiochi sottolineano come molte cose possono essere ancora migliorate, potenziate per poter incontrare le necessità e poter favorire l’espressività di chiunque.
Ma le basi ci sono per vedere che, se è vero che per alcune persone i videogiochi possono essere un problema agli occhi esterni, molto spesso è il punto da cui guardiamo il fenomeno a dover cambiare.
Il panico morale trova terreno fertile sulle generalizzazioni, sull’identificazione di simboli negativi ma si infrange nell’incontro con le persone reali, con le loro storie.
Per questo il progetto Game Hero non si conclude con questo libro.
Se sei un videogiocatore o una videogiocatrice e vuoi raccontare la tua storia puoi farlo !

Sonia Bertinat

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