E quando dico trasformare la sofferenza in parola, non intendo trovare un interlocutore per tale parola, anche se alla fine è quello che si persegue, è ovvio, ma mi riferisco alla prima tappa che è ragionare in solitudine e dire: “Adesso basta!”, accendere una lanterna e mettere un po’ d’ordine in tanta insensatezza, rifletterci su, riflettere ha due significati, insomma consiste nel riuscire a vedere la propria sofferenza come riflessa davanti a noi, al di fuori di noi, separarsene per guardarla e allora ci si rende conto che la sofferenza e la persona non formano un tutt’uno indissolubile; siamo vittime di qualcosa che viene dall’esterno probabilmente modificabile, suscettibile di venire elaborato se non altro osservato, e nell’atto dello sdoppiamento inizia l’alchimia, la fonte del discorrere, ecco dove si produce l’alba della parola che sorgendo emana luce interno a sè, anche se non sai ancora a chi dirla, e poi sì, quando si è riusciti a farla maturare e illumina e riscalda – a volte passono anni prima di arrivare a quel mezzogiorno – allora l’ideale sarebbe se si materializzasse il recettore reale di questa parola, in carne ossa, la prima hai dovuto raccontartela da solo… raccontarla a qualcun altro è la seconda tappa, più gradevole, lo so, ma non vi si arriva mai senza la prima, o meglio, vi si arriva però male.
Gaite, Tutta la notte svegli
Sonia Bertinat
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