Spesso questa affermazione viene rivolta ai terapeuti che si occupano di dipendenze, il più delle volte dalle persone stesse che si rivolgono loro.
E si cade subito nella tentazione di dire “beh in effetti, può esserci una ragione in questo”.
Ma se seguiamo questo ragionamento per assurdo, allora non ci dovrebbero essere ginecologi uonini o geriatri giovani.
E per rimanere strettamente al campo psicoterapico (campo dove l’impalpabilità della mente umana pare dar luogo a moti pregiudizi), sarebbe impossibile lavorare con persone diversamente abili. Come fare a capire cosa prova una persona paraplegica se non lo si è provato? O chi non vede… nemmeno provando a chiudere gli occhi potremmo avere minimamente idea di cosa si possa provare. E se vogliamo andare nella patologia, come affrontare uno schizofrenico in preda ad allucinazioni e deliri, se non li si sono mai provati.
Se lo psicoterapeuta dovesse aver provato ogni stato d’animo o condizione dei suoi pazienti sarebbe un tuttologo. Ma “sapere” non è lo scopo della psicoterapia, lo è il sentire e il condividere emozioni e vissuti… e questi sono comuni a tutti, al di là delle circostanze di vita che li provocano.
Oltretutto, una condivisione di vissuti troppo forte, data dall’aver esperito ciò che chi curiamo sta esperendo, a volte provoca più rischi che benefici… può portare a forti collusioni come a forti simmetrie per cui, prendendo le distanze da quella parte che abbiamo lasciato nel nostro passato, non riusciamo ad accogliere quella della persona che dovremmo aiutare.
E, personalmente, credo che la dipendenza in generale sia facilmente empatizzabile… cambiando l’oggetto di dipendenza, tutti prima o poi avranno sperimentato quelle sensazioni di bisogno viscerale, di benessere totale dato dall’affidarsi ad un agente esterno.
Se poi il terapeuta assume una valenza moralista allora no che non ci può essere empatia. Ma chi ha esperienze passate di dipendenza può cadere vittima dello stesso moralismo.
E per rimanere strettamente al campo psicoterapico (campo dove l’impalpabilità della mente umana pare dar luogo a moti pregiudizi), sarebbe impossibile lavorare con persone diversamente abili. Come fare a capire cosa prova una persona paraplegica se non lo si è provato? O chi non vede… nemmeno provando a chiudere gli occhi potremmo avere minimamente idea di cosa si possa provare. E se vogliamo andare nella patologia, come affrontare uno schizofrenico in preda ad allucinazioni e deliri, se non li si sono mai provati.
Se lo psicoterapeuta dovesse aver provato ogni stato d’animo o condizione dei suoi pazienti sarebbe un tuttologo. Ma “sapere” non è lo scopo della psicoterapia, lo è il sentire e il condividere emozioni e vissuti… e questi sono comuni a tutti, al di là delle circostanze di vita che li provocano.
Oltretutto, una condivisione di vissuti troppo forte, data dall’aver esperito ciò che chi curiamo sta esperendo, a volte provoca più rischi che benefici… può portare a forti collusioni come a forti simmetrie per cui, prendendo le distanze da quella parte che abbiamo lasciato nel nostro passato, non riusciamo ad accogliere quella della persona che dovremmo aiutare.
E, personalmente, credo che la dipendenza in generale sia facilmente empatizzabile… cambiando l’oggetto di dipendenza, tutti prima o poi avranno sperimentato quelle sensazioni di bisogno viscerale, di benessere totale dato dall’affidarsi ad un agente esterno.
Se poi il terapeuta assume una valenza moralista allora no che non ci può essere empatia. Ma chi ha esperienze passate di dipendenza può cadere vittima dello stesso moralismo.
La nostra personalità può entrare più o meno facilmente in sintonia con persone con caratteristiche personologiche e/o patologiche differenti. E questo ci dà la misura di quanto possiamo essere loro di aiuto o di ostacolo. Ma ciò non risiede nelle nostre esperienze condivisibili con loro, ma nel possedere una mentalità ed un’anima pronta ad accogliere l’altro. Accoglierlo come detto, per il suo sentire, per ciò che porta a noi… e su queste basi si può lavorare potenzialmente con chiunque.
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Sonia Bertinat
Psicologa Psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico. Da anni mi occupo di dipendenze da sostanza e comportamentali. In parallelo mi occupo di tematiche LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) e dell'impatto delle nuove tecnologie sulla vita intrapsichica e relazionale delle persone.
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