Lo spazio personale è quell’area che costruiamo idealmente intorno a noi, che non ha confini fisici e non coincide coi confini corporei, in cui gli altri non possono accedere senza il nostro consenso senza provocarci una reazione negativa. La distanza dagli altri che riusciamo a tollerare dipende dal grado di intimità che abbiamo con loro.
[Tweet “Il nostro spazio personale dipende dal grado di intimità che abbiamo con gli altri.”]
Se il grado di intimità è nullo, qualsiasi violazione dello spazio definito, anche solo il parlare molto vicino all’interlocutore diventa una violazione. Un qualcosa che sentiamo come invasivo della nostra intimità. Ci sono poi situazioni in cui, mantenendo l’anomia reggiamo il contatto ravvicinato con altre persone (sugli autobus o treni stracolmi, in coda, ad un concerto). Sono però situazioni in cui appunto, da un lato, la consuetudine sociale ci permette di tollerare l’annullamento degli spazi ma è soprattutto l’assenza della dimensione relazionale ad aiutare. Il mio essere me viene concentrato in un piccolo nucleo interno cosicché la parte del mio corpo che la avvolge viene ad assumere il ruolo di protezione e di spazio interpersonale surrogato. Ovvio sono situazioni molto instabili e precarie che reggiamo solo per brevi periodi e che vengono infrante non appena sentiamo uno spintone o qualcuno che si appoggia (senza arrivare ad invasioni della nostra persona al limite della legalità). Questo fa subito crescere rabbia e irritazione come se si fossero infrante le regole.
Si è visto inoltre come l’ansia possa ridefinire i valori del nostro spazio personale aumentandone la dimensione di cui necessitiamo.
Questo nella vita di tutti i giorni.
Ma su internet come si regola lo spazio individuale e la sua percezione?
Le distanze oggettive sono tante e fisicamente è ovvio che non ci sarà mai possibilità di violarlo.
Perché però a volte il vissuto di intrusione, di violazione dello spazio viene percepito come se nella realtà qualcuno di estraneo ci venisse troppo vicino?
Di fronte al pc ci sentiamo molto più sicuri che se fossimo su un autobus pieno. La nostra individualità prende tutti gli spazi di noi e viene trasmessa dalle dita. Sono rilassato, al sicuro, protetto da uno schermo che so non aggredirà mai.
Ma è così vero?
Siamo così al sicuro?
E non serve arrivare a prendere in considerazione episodi di cyberbullismo e cyberstalking che hanno nella rete la loro realizzazione completa e sono contemplati dalla legge. Non voglio nemmeno indagare l’ambito della pubblicizzazione selvaggia a cui siamo sottoposti per il semplice fatto di essere in rete.
Voglio parlare delle intrusioni volute da parte di altri esseri umani.
Chiunque di noi, se ci pensa un attimo, ha vissuto la sensazione di invasione dello spazio personale, sensazione forse difficile da riconoscere razionalmente perché la ragione ci dice che nessuno ci ha “violato”.
Ma quella sensazione corrisponde al vero e riconoscerla permette di conoscersi di più e conoscere di più il mare virtuale in cui ci tuffiamo quotidianamente.
I dati personali che io riverso nella rete spesso sono inconsapevoli, e peggio, pur riversandoli spesso, mi illudo di avere un buon controllo della mia privacy.
Questa illusione fa si che il mio spazio personale si allarghi ma abbattendo le barriere di protezione e diventi quindi più vulnerabile alle intrusioni altrui.
Senza arrivare al reato, ci sono molti comportamenti molesti che incontriamo tutti i giorni in rete o perché da noi subito o perché subiti da persone che conosciamo; forse perché lo abbiamo noi stessi messo in atto nei confronti di qualcuno, magari in assoluta buona fede.
Ciò accade in particolar modo sui social network.
Prendiamo le persone che seguono le nostre attività in modo assiduo senza un criterio. Su Facebook o Google +, ad esempio, vi sarà capitato di aprire il profilo e trovare una sfilza immane di “mi piace” a qualsiasi cosa abbiate pubblicato siano esse foto, post, note o musica. Ora, salvo rari casi di conoscenza reciproca, di condivisione di interessi comuni nella realtà o in rete, se questi “mi piace” appartengono a sconosciuti lo stupore insorge subito e la nostra mente si allerta. Quasi ci sentiamo accerchiati, soffocati. Sicuramente infastiditi.
Un altro tipo di intrusione è la condivisione sul proprio profilo ad opera di altri di materiale loro pubblicitario. Noi diventiamo la nostra bacheca in cui appuntare pubblicità che non ci interessa e le puntine pungono. Veniamo depersonalizzati.
C’è poi chi ritiene di taggarti insieme a una miriade di persone su temi che magari nemmeno ti interessano. Qui non è una invasione ad personam ma, di nuovo, una depersonalizzazione, deindividualizzazione. Non mi sottoponi un contenuto che credi possa interessarmi ma spammi allegramente un tuo contenuto per avere più condivisioni possibili per magnificare te stesso.
Vogliamo parlare poi dei messaggi multipli su Facebook dove ad ogni messaggio ti arriva una notifica e magari nemmeno sai chi ti ha inserito? Oppure per quanto riguarda Google +, il ricevere continue notifiche di foto cuoricinate o massime da bacio perugina. Se sei nelle mie cerchie le vedo. Se è una cosa importante che io tengo a sapere sei autorizzato a inviarmè gradita la notifica altrimenti no.
Un altro tipo di invasione che ho riscontrato personalmente è il tentativo (sempre maldestro) di approccio tramite il social network. Si parte dal diretto “sei bella e penso tu possa fare per me” alla richiesta esplicita di incontri sessuali, ma c’è anche chi la prende alla larga partendo da domande del tipo “come stai”, “cosa stai facendo”.
Questo in genere ammetto che mi capita con il mio profilo Facebook professionale (quello privato lo blindo di più). A maggior ragione la cosa che mi perplime è il fatto che ci si rivolga ad un professionista che è lì in quella veste, chiedendo cose altre. Come se lì fossimo tutti merce a disposizione. Io non penso che nessuno andrebbe dal proprio medico di base, o da un avvocato dicendogli “mi piace il tuo viso, usciamo”, per fare uno degli esempi più estremi.
Invece sui social si ritiene di avere il diritto di farlo. Sul web si ha il coraggio di fare cose che non faremmo nella realtà, forse risultando più genuini e meno autocensurati? Il web è “il nuovo mezzo per essere se stessi, una specie di pillola della fiducia” (mi scrivono)?
Lungi da me escludere che si possa fare conoscenza attraverso i social. Io stessa ho conosciuto persone valide e alcuni sono diventati amici che magari non avrei incontrato senza la rete.
Ma è la diversificazione che manca. Avendo un contesto di base comune, si ritiene che tutto sia lecito.
E qui entra la controparte di quella che è il nostro spazio personale, quello su cui siamo responsabili nel tutelare, e cioè il rispetto altrui. L’anonimato, l’assenza della componente fisica sembra rendere lecito ogni comportamento. Certo basta ignorare, come ci suggeriscono i punti zen di Ferruccio Gianola, ma spesso ignorare non limita l’irritazione perché mail, messaggi, notifiche sono lì a ricordarci che ci hanno seguito.
Un’obiezione potrebbe essere: ci sono gli strumenti per tutelarti, puoi bloccare o limitare le notifiche, non aprirle, ignorare, cancellare… quanta energia per ovviare a cose cui la mera educazione già porrebbe rimedio.
Si è visto inoltre come l’ansia possa ridefinire i valori del nostro spazio personale aumentandone la dimensione di cui necessitiamo.
Questo nella vita di tutti i giorni.
Ma su internet come si regola lo spazio individuale e la sua percezione?
Le distanze oggettive sono tante e fisicamente è ovvio che non ci sarà mai possibilità di violarlo.
Perché però a volte il vissuto di intrusione, di violazione dello spazio viene percepito come se nella realtà qualcuno di estraneo ci venisse troppo vicino?
Di fronte al pc ci sentiamo molto più sicuri che se fossimo su un autobus pieno. La nostra individualità prende tutti gli spazi di noi e viene trasmessa dalle dita. Sono rilassato, al sicuro, protetto da uno schermo che so non aggredirà mai.
Ma è così vero?
Siamo così al sicuro?
E non serve arrivare a prendere in considerazione episodi di cyberbullismo e cyberstalking che hanno nella rete la loro realizzazione completa e sono contemplati dalla legge. Non voglio nemmeno indagare l’ambito della pubblicizzazione selvaggia a cui siamo sottoposti per il semplice fatto di essere in rete.
Voglio parlare delle intrusioni volute da parte di altri esseri umani.
Chiunque di noi, se ci pensa un attimo, ha vissuto la sensazione di invasione dello spazio personale, sensazione forse difficile da riconoscere razionalmente perché la ragione ci dice che nessuno ci ha “violato”.
Ma quella sensazione corrisponde al vero e riconoscerla permette di conoscersi di più e conoscere di più il mare virtuale in cui ci tuffiamo quotidianamente.
I dati personali che io riverso nella rete spesso sono inconsapevoli, e peggio, pur riversandoli spesso, mi illudo di avere un buon controllo della mia privacy.
Questa illusione fa si che il mio spazio personale si allarghi ma abbattendo le barriere di protezione e diventi quindi più vulnerabile alle intrusioni altrui.
Senza arrivare al reato, ci sono molti comportamenti molesti che incontriamo tutti i giorni in rete o perché da noi subito o perché subiti da persone che conosciamo; forse perché lo abbiamo noi stessi messo in atto nei confronti di qualcuno, magari in assoluta buona fede.
Ciò accade in particolar modo sui social network.
Prendiamo le persone che seguono le nostre attività in modo assiduo senza un criterio. Su Facebook o Google +, ad esempio, vi sarà capitato di aprire il profilo e trovare una sfilza immane di “mi piace” a qualsiasi cosa abbiate pubblicato siano esse foto, post, note o musica. Ora, salvo rari casi di conoscenza reciproca, di condivisione di interessi comuni nella realtà o in rete, se questi “mi piace” appartengono a sconosciuti lo stupore insorge subito e la nostra mente si allerta. Quasi ci sentiamo accerchiati, soffocati. Sicuramente infastiditi.
Un altro tipo di intrusione è la condivisione sul proprio profilo ad opera di altri di materiale loro pubblicitario. Noi diventiamo la nostra bacheca in cui appuntare pubblicità che non ci interessa e le puntine pungono. Veniamo depersonalizzati.
C’è poi chi ritiene di taggarti insieme a una miriade di persone su temi che magari nemmeno ti interessano. Qui non è una invasione ad personam ma, di nuovo, una depersonalizzazione, deindividualizzazione. Non mi sottoponi un contenuto che credi possa interessarmi ma spammi allegramente un tuo contenuto per avere più condivisioni possibili per magnificare te stesso.
Vogliamo parlare poi dei messaggi multipli su Facebook dove ad ogni messaggio ti arriva una notifica e magari nemmeno sai chi ti ha inserito? Oppure per quanto riguarda Google +, il ricevere continue notifiche di foto cuoricinate o massime da bacio perugina. Se sei nelle mie cerchie le vedo. Se è una cosa importante che io tengo a sapere sei autorizzato a inviarmè gradita la notifica altrimenti no.
Un altro tipo di invasione che ho riscontrato personalmente è il tentativo (sempre maldestro) di approccio tramite il social network. Si parte dal diretto “sei bella e penso tu possa fare per me” alla richiesta esplicita di incontri sessuali, ma c’è anche chi la prende alla larga partendo da domande del tipo “come stai”, “cosa stai facendo”.
Questo in genere ammetto che mi capita con il mio profilo Facebook professionale (quello privato lo blindo di più). A maggior ragione la cosa che mi perplime è il fatto che ci si rivolga ad un professionista che è lì in quella veste, chiedendo cose altre. Come se lì fossimo tutti merce a disposizione. Io non penso che nessuno andrebbe dal proprio medico di base, o da un avvocato dicendogli “mi piace il tuo viso, usciamo”, per fare uno degli esempi più estremi.
Invece sui social si ritiene di avere il diritto di farlo. Sul web si ha il coraggio di fare cose che non faremmo nella realtà, forse risultando più genuini e meno autocensurati? Il web è “il nuovo mezzo per essere se stessi, una specie di pillola della fiducia” (mi scrivono)?
Lungi da me escludere che si possa fare conoscenza attraverso i social. Io stessa ho conosciuto persone valide e alcuni sono diventati amici che magari non avrei incontrato senza la rete.
Ma è la diversificazione che manca. Avendo un contesto di base comune, si ritiene che tutto sia lecito.
E qui entra la controparte di quella che è il nostro spazio personale, quello su cui siamo responsabili nel tutelare, e cioè il rispetto altrui. L’anonimato, l’assenza della componente fisica sembra rendere lecito ogni comportamento. Certo basta ignorare, come ci suggeriscono i punti zen di Ferruccio Gianola, ma spesso ignorare non limita l’irritazione perché mail, messaggi, notifiche sono lì a ricordarci che ci hanno seguito.
Un’obiezione potrebbe essere: ci sono gli strumenti per tutelarti, puoi bloccare o limitare le notifiche, non aprirle, ignorare, cancellare… quanta energia per ovviare a cose cui la mera educazione già porrebbe rimedio.
Vi è successo? Cosa avete fatto? Quali tutele avete messo in campo o quali limiti vi siete dati?
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Sonia Bertinat
Psicologa Psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico. Da anni mi occupo di dipendenze da sostanza e comportamentali. In parallelo mi occupo di tematiche LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) e dell'impatto delle nuove tecnologie sulla vita intrapsichica e relazionale delle persone.
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