<<Forse parlare di “desiderio” è eccessivo. Come per lo shopping: oggigiorno chi va per negozi non compra per soddisfare un desiderio, come ha osservato Harvie Ferguson, ma semplicemente per togliersi una voglia. Ci vuole tempo (un tempo insospettabilmente lungo per gli standard di una cultura che aborre la procrastinazione e postula invece il “soddisfacimento immediato”) per seminare, coltivare nutrire il desiderio. Il desiderio ha bisogno di tempo per germogliare, crescere e maturare. Via via che il ” lungo termine ” diventa sempre più breve, la velocità con cui il desiderio giunge a maturazione resiste ostinatamente all’accelerazione; il tempo occorrente per ottenere il ritorno sull’investimento della coltivazione del desiderio appare sempre più lungo, si avverte esasperante e insopportabile. (…) Tutte le motivazioni atte a indurre gli acquirenti a comprare devono nascere sul posto, mentre si gira per il centro (commerciale). È una volta espletato il compito, possono anche morire sul posto (quasi sempre tramite un suicidio assistito). La loro aspettativa di vita non deve necessariamente superare il tempo occorrente al cliente per andare dall’entrata alle casse. (…) la brevità della loro aspettativa di vita e il pregio maggiore delle voglie, ciò che le rende preferibili ai desideri. Togliersi una voglia, diversamente dall’esaudire un desiderio, è soltanto un atto estemporaneo, che si spera non lasci conseguenze durevoli che potrebbero ostacolare ulteriormente momenti di estasi gioiosa. (…)
Mentre il principio del togliersi-le-voglie è inculcata a fondo nella condotta quotidiana dei poteri forti del mercato dei beni di consumo, il coltivare un desiderio sembra inquietantemente, inopportunamente, fastidiosamente propendere dall’altra parte dell’impegno amoroso.
Sonia Bertinat
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