Babadook: il mostro interiore

Babadook mi gira intorno. No, non è presente qui o perlomeno non ha ancora palesato la sua presenza. Potrei altresì illudermi di averlo addomesticato. Ma questo è un altro discorso.
Mi gira intorno perché dopo aver visto il film qualche settimana fa, e averci pensato a lungo, oggi incappo in un post su Facebook in cui si parla di lui.
Chi dice che fa paura e chi no. Io non amo i film horror, non ne reggo spesso la tensione per cui non volevo vedere nemmeno questo anche se la trama mi intrigava. Ma l’ho visto alla fine.
Fin da subito ho capito che non mi faceva affatto paura. E la cosa aveva solo due spiegazioni: era un film insulso oppure la paura era situata ad un livello altro rispetto ai ‘normali’ film horror.
Brevemente la storia.

*Attenzione, spoiler*
Una madre vive sola con un bambino iperattivo. Il padre è morto in un incidente d’auto mentre portava la moglie in ospedale. Lei è sopravvissuta e il bambino pure.
Il bambino, Samuel, è iperattivo, vi dicevo. Mette a dura prova la pazienza non solo della madre ma anche della scuola (da cui viene ritirato dalla madre dopo la proposta di un insegnante di sostegno), dei parenti e degli amici.
Fa magie Samuel. Inventa strani macchinari per sconfiggere i mostri che pensa si aggirino nella sua camera.
Finché un giorno trova il libro di Babadook. Non un libro di fiabe comune. Un libro che vive di vita propria e che viene scritto giorno dopo giorno a seconda degli eventi e che non vuole essere eliminato.  Babadook viene fatto vedere poco ma ha le sembianze di un cartone animato. Un simbolo che rappresenta le paure più primitive, meno legate all’età adulta. Babadook ti vuole tutto per sè.
Samuel ci crede, subito. E vuole proteggere la madre da questo pericolo in cui però lei non crede. Ma Babadook non desiste. Vuole essere visto da lei. Finché lei non lo vede e ne rimane terrorizzata.
Il film mostra con intensa angoscia il cadere della madre in una forma di depressione data dall’isolamento sociale, dal trauma passato e dal figlio che non sa più come contenere. Una depressione acuita dalle veglie notturne forzate per proteggersi da Babadook.
L’angoscia e la perdita di lucidità della mamma si percepiscono non solo nelle azioni a volte tragiche che compie, ma nell’intensità dei suoi sguardi, nella lentezza del cammino, nel viso sempre più emaciato.
A poco a poco emerge come quel bambino, il suo bambino che lei protegge dagli attacchi esterni in realtà è oggetto del suo odio. Un odio difficile da riconoscere e reggere. Un odio che scaturisce dal fatto che lui rappresenta, rinnova quotidianamente, ai suoi occhi la morte del marito.
Amore e odio. Due forze potenti che entrano in conflitto nel momento in cui le difese si allentano. Babadook si ‘impossessa’ di lei, sovrasta la parte di amore e odia. Odia con violenza e rabbia repressa.
Samuel sa che Babadook vuole fare del male alla sua mamma e tramite la mamma a lui. Non odierà per un secondo la madre e continuerà a proteggerla proprio perché scinde la madre buona da quella cattiva posseduta da Babadook.
Nel finale emerge una negazione agita del dolore, il lutto non superato perché non elaborato. La madre non festeggia mai il compleanno del figlio nel giorno giusto. È troppo doloroso accostare vita e morte insieme. Solo tenendoli separati ci si difende (o si pensa di poterlo fare).
L’epilogo, seppur nebuloso sul prosieguo, ci suggerisce cosa fare.
Non possiamo negare le nostre parti negative. I demoni che si aggirano in noi sono affamati se li ignoriamo. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di guardarli in faccia e accettarli come parti di noi per togliere loro il potere distruttivo. Metterli in un luogo sicuro, dove sappiamo che esistono ma dove non possono nuocerci.
La madre chiude Babadook in cantina e ogni giorno gli porta del cibo. Dice al figlio che solo quando sarà grande potrà incontrarlo.
Il film si chiude con questa scena di momentaneo equilibrio tra le parti ma la suspance che lascia ci fa capire che è un equilibrio che non possiamo dare per scontato perché Babadook è sempre lì.
È un equilibrio da curare e alimentare.
La simbologia della casa mi riporta ad un’analisi fatta da Zizek nel suo film. Babadook si muove in cantina (l’inconscio sede dell’irrazionalità, delle immagini) e quando ne esce invade il primo piano. Invade la razionalità, l’io eroico che non ha armi per arginarlo. La madre trova pace al piano terra, una sorta di Limbo, dove la televisione accesa perennemente di notte sembra costituire quel Medium che la protegge o che la annichilisce e la estrania a tratti in modo catatonico dalla situazione.
[Tweet “La paura della psicoterapia spesso è la paura di Babadook.”] Il timore di risvegliarlo, vederlo e non riuscire a fronteggiarlo. Ma lo scopo della terapia è proprio questo. Non lasciarlo aggirare nella nostra casa interiore a suo piacimento ma guardarlo, parlargli e trovargli un senso all’interno della propria storia di vita.
Il film è dilaniante perché, come i casi di depressione post partum, ci mettono di fronte alla parte ombra della maternità. Maternità che culturalmente si vede come naturalmente accogliente, abnegazione quasi sacrificale in nome del nuovo nato. [Tweet “Maternità che culturalmente si vede come naturalmente accogliente, abnegazione quasi sacrificale in nome del nuovo nato.”] Ma ciò non sempre è. E non prenderlo in considerazione ci fa mettere in atto lo stesso meccanismo del bambino che scinde la madre buona dalla cattiva, santificando la prima e condannando la seconda. Riconoscerle in sè entrambe e acceptarle può essere un primo passo.

E voi? Avete visto il film? Che interpretazione ne avete dato?

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Sonia Bertinat

Psicologa Psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico. Da anni mi occupo di dipendenze da sostanza e comportamentali. In parallelo mi occupo di tematiche LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) e dell'impatto delle nuove tecnologie sulla vita intrapsichica e relazionale delle persone.

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