Tempo fa, commentando nel gruppo #adotta1blogger , mi confrontavo con Paola Chiesa e con Gloria Vanni sulla difficoltà da lettori nel commentare (“Perché un’adozione è incompleta se non c’è la nostra voce a sostenere il lavoro di un blogger anche sul suo blog”, sostiene Gloria) i blog che leggiamo e di come in realtà sui social spesso ci siano molti commenti. Gloria mi disse allora “Wow, Sonia, quanto mi piacerebbe leggere i perché psicologici della nostra difficoltà a lasciare un commento!”. Subito mi scattò l’ansia di prestazione perché no, una risposta non l’avevo. Allora ho appuntato la richiesta in un angolo della mente lasciandola maturare per vedere se si agganciava a qualche riflessione. Questo post non vuole e non pensa di essere una spiegazione esaustiva ma può esserne un’aspetto. Stasera ho letto un bellissimo post di Cora Francesca Scollo sulla fuga dal fallimento e, click, è scattato il collegamento.
Saltando da un social network ad un altro non possiamo fare a meno di notare come le persone declinino se stesse sulle diverse piattaforme. Pur nelle distinzioni di comportamento o uso del social c’è una categoria che accomuna alcune persone ma che forse non ci lascia così immuni: la denigrazione, svalutazione ed attacco dell’altro.
La mia impressione è che questo atteggiamento sia prevalente su Facebook ma tale osservazione potrebbe derivare dal gran numero di persone, anche molto diverse tra loro, che popolano il famoso social.
Sono molto interessata all’osservazione del comportamento altrui e, come non riesco in treno a non osservare gli altri viaggiatori, o ad ascoltarne le conversazioni che colpiscono la mia attenzione, così faccio sul web. Il treno e il web! Ma sono due cose diverse, qualcuno dirà. Io non credo invece, e l’ho sostenuto più volte, che reale e virtuale siano due mondi non comunicanti ma che siano luoghi in cui esprimiamo parti di noi. A volte il monitor, o una identità fake e quindi l’anonimato, ci fanno percepire una distanza dall’interlocutore che può far cadere molte inibizioni del nostro comportamento che mettiamo in atto nel vis à vis. Ma sempre noi siamo.
Le inibizioni crollate o diminuite permettono di far fuoruscire comportamenti e/o emozioni che normalmente teniamo a bada, questo sia per le manifestazioni positive (manifestazioni di affetto con persone poco conosciute ad esempio) che per quelle negative (rabbia, invidia, e così via).
Vorrei qui soffermarmi sulle emozioni negative di rabbia e invidia. Leggiamo tutti fiumi di commenti che sono chiaramente non moderati da alcuna (sana) censura al fiume che dirompe dal nostro profondo.
I post che attirano più commenti infatti mi sembrano di due tipi: quelli in cui si dà libero sfogo all’insulto, alla rabbia, alla critica feroce che mira ad annichilire l’altro e quelli che ci suscitano invidia (spesso non riconosciuta e mascherata in una vera e propria formazione reattiva nel suo contrario, la stucchevole adulazione).
Post di tipo opposto all’apparenza, ma che sembrano avere un grosso punto comune. Cosa ce ne facciamo delle emozioni negative che proviamo? Provare emozioni negative non ci fa stare bene ma sono moti del nostro animo e quindi dovrebbero essere accettati in primis come nostri per poter essere modulati nella relazione con gli altri. Se li rifiutiamo, fatichiamo a incorporare le nostre brutture nell’immagine di noi che vorremmo sempre positiva, rischiamo di buttarli sugli altri che diventano i nostri specchi negativi o il ricettacolo (colpevole) del nostro social vomito emotivo.
In psicologia c’è un termine che ricorda questo meccanismo: la proiezione. La proiezione (inserita nei meccanismi di difesa) è quel processo per cui parti di noi, affetti, pensieri che riteniamo, più o meno inconsapevolmente, incompatibili con l’idea che abbiamo di noi, vengano buttate sugli altri che a quel punto vengono identificati con questi tratti. La distanza tra noi e queste proiezioni aumenta nel momento in cui attacchiamo il depositario prescelto.
Jung ci mise in guardia da questo meccanismo quando disse [Tweet ““Tutto ciò che ci irrita negli altri, può portarci a capire noi stessi” (C. G. Jung)”]
Ma solo se siamo disposti o pronti a capire noi stessi, se no continueremo a social vomitare, privandoci di una grossa possibilità di crescita.
Cosa c’entrano i meccanismi di difesa coi commenti, mi chiederete a questo punto.
L’ipotesi è che i post o le piattaforme che suscitano la nostra reazione “di pancia” ne permettano l’estrinsecazione più facilmente se ci forniscono la possibilità immediata e conosciuta (l’abitudine/faciità a commentare sui social) di esprimere il nostro pensiero. Non è da escludere anche un intervento dell’effetto alone ricordatoci da Valentina Coppola, che potrebbe far sì che vedere già molti commenti prima del mio sul social piuttosto che sul blog mi induca a ritenere più valido il primo come depositario del mio pensiero. Perché in questi casi non è tanto importante il comunicare la critica o il disaccordo con ciò che l’autore del post sostiene (assolutamente legittima e accolta perché ci permette di vedere cose che noi magari non abbiamo visto) ma è importante dar sfogo all’impulso che prepotente emerge. E che spesso vogliamo abbia più pubblico possibile se lo riteniamo fornisca, paradossalmente, una migliore immagine di noi.
Il nostro sfogo irrazionale non ha nulla a che fare con il fatto che la persona o il pensiero verso cui lo rivolgiamo meritino oggettivamente il nostro livore. Perché qui è la modalità a essere in discussione.
L’apprezzamento, invece, se non spontaneo e sentito (nell’accezione di cui sopra) ci viene meno spontaneo, anche qualora porti con sè emozioni positive (entusiasmo, commozione, allegria). Quasi che il farci provare emozioni positive sia un fatto scontato, atteso, che ci provoca un piacere in cui ci crogioliamo ma che non sentiamo la necessità di condividere con l’autore che lo ha indotto.
Forse proprio per quella inevitabile invidia che tutti noi portiamo dentro e che ci fa dire di un quadro “Potevo farlo pure io” sminuendo la creatività di chi non solo aveva la potenzialità per farlo ma che lo ha fatto!
O forse perché condividere emozioni positive ci sembra pericoloso, come se condividendo perdessimo una parte di quella sensazione che allora teniamo gelosamente per noi. Non considerando che la sana condivisione è arricchimento reciproco.
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Sonia Bertinat
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