Come ho scritto prima di partire in questo post, il mio intento, durante le ferie, era di staccare dal lavoro. Non attuare il troppo abusato termine del digital detox generale che come dice senza mezzi termini in un vecchio post Francesco Ambrosino, è un’assurdità in quanto:
- “se una cosa ti fa stare male e devi liberartene per poter iniziare un processo di disintossicazione, devi smetterla di fare quella cosa.”
- “Io non ho bisogno di liberarmi del digitale, ma delle preoccupazioni che ogni giorno devo vivere ed affrontare. E non sarà certo smettere di usare i social per qualche giorno che mi aiuterà a risolverli.”
Condivido in pieno questo pensiero su entrambi i punti.
Quello da cui dobbiamo staccare non è uno strumento ma una modalità di pensiero, di vita.
Io ho usato molto internet in queste vacanze ad esempio: informazioni stradali, informazioni sui luoghi da visitare, informazioni utili, tenermi aggiornata sui fatti del mondo e anche usare i social con mero scopo ludico. E’ utile e immediato, inutile negarlo.
Però dopo un anno di lavoro avevo bisogno di staccare dalla frenesia, dai tempi stretti dalle cose DA FARE.
[Tweet “Più che un digital detox ci serve un work detox!”]Così ho commentato il post di Francesco.
Ho messo in stand by quindi tutti i profili social che uso regolarmente per lavoro e ho tenuto aperti quelli personali (che riesco a usare pochissimo durante l’anno).
Quello che ho cercato di recuperare è stata la lentezza. Allentare i ritmi, seguire i desideri del momento. Che poi se quel museo non lo si riesce a visitare pazienza. Riposare il fisico, sì, ma soprattutto una mente sovraccarica.
Staccare vuol dire non sentire che si sta perdendo qualcosa. Che un pezzo della nostra vita stia andando avanti senza il nostro controllo. Questo fa sì che si ceda a controllare le mail di lavoro ad esempio. Ma questo riattiva immediatamente la mente su quella lunghezza d’onda e si ripresenta immediato lo stress.
L’ho provato uno dei primi giorni di viaggio quando ho ricevuto un messaggio da un collega di lavoro. Immediatamente, senza pensarci, mi sono fiondata sulla mail di lavoro a cercare l’informazione che poteva servirgli. Poi mi sono guardata da fuori e mi sono chiesta cosa stessi facendo. Era importante? Era urgente? Certo se lo fosse stato uno poteva pure fare uno sforzo. Ma no, non lo era. Un puro adempimento amministrativo.
E la frenesia con cui mi sono messa a cercare le mail, in piedi, senza pensare, era il contrario di ciò che cercavo. Sono scesa nei giardini e mi sono seduta su una panchina. Ho osservato i bambini giocare, gli avventori dei bar che sorseggiavano l’aperitivo. I pappagallini che passavano da un ramo all’altro degli alberi con i loro suoni striiduli. E lentamente ho ritrovato la tranquillità che cercavo.
Ieri sera leggevo un vecchio post di Sylvia Baldessari che aveva come tema proprio questo. Il rallentare, anche l’oziare, i momenti vuoti sono fondamentali nicchie di creatività per i bambini. Ma lo sono anche per noi. Ne abbiamo bisogno. Una psichiatra collega in una comunità in cui ho lavorato mi disse una volta che mi lamentai che arrivata a casa non riuscivo a fare nulla: “Oziare, sedersi, rialzarsi, aprire un libro e chiuderlo, girare a vuoto da una stanza ad un’altra serve. Non è inutile”.
E lo stesso ci ricorda Sylvia:
Oziare e annoiarsi sono esperienze utili perché anche nel non fare niente c’è un’occasione di crescita.
E mi è venuto allora in mente un gioco che amavo molto. Il Gioco del 15. Ve lo ricordate? Per rimettere a posto i numeri in sequenza era necessario avere uno spazio vuoto. Se fosse stato occupato sarebbe stato impossibile muovere alcunché.
Questo mi porto da queste ferie. Mantenere uno spazio libero, uno spazio di movimento mentale per non saturare. Provare a dire dei no. Riordinare le priorità.
Perché è solo una vecchia fiaba che fa sì che si ammirino le formiche e non la cicala. Servono entrambe. Ci hanno insegnato che se si fa si è. Che l’ozio non porta a nulla. Ma se non lasciamo degli spazi vuoti per creare nuove possibilità non c’è crescita e non c’è benessere.
Sonia Bertinat
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