Ancora Andrea…

Si sono scritti articoli e dette parole in abbondanza sulla storia di Andrea, il ragazzino “dai pantaloni rosa” suicidatosi pochi giorni fa in seguito alle pressanti umiliazioni di cui era fatto oggetto.

Si è detto tanto ma i concetti che fanno male al cuore sono presto sintetizzabili.

Un ragazzo ha pensato di non poter più vivere questa vita non perchè gay (questo non lo sappiamo per certo e nemmeno ci interessa) ma perchè l’essere identificato come tale era diventato per lui motivo di vergogna, perchè l’essere gay era usato come insulto, al punto da invocare la calunnia (il nonno) o la diffamazione (solo ieri sera su Rai News, pur scusandosi per la liaison, il giornalista collega la notizia di Andrea alla notizia sulla diffamazione correlata alle pene per i giornalisti) in quello che oggigiorno è lo sport preferito: lo scarico di responsabilità.

Come spesso, troppo spesso, accade c’è una distorsione tale dei concetti per cui si rischia di perdere di vista l’essenza delle cose.

Ci sono state accuse rivolte ai “gay” (termine che spesso si usa in modo indefinito quasi ad identificare un’identità sovragovernativa aliena piutosto che un insieme di persone che vorrebbero solo poter vivere come le altre) di strumentalizzazione della notizia al fine di ottenere quello che non dovrebbe essere richiesto urlando ma dato per assodato.
E cioè, ad esempio,  una legge che protegga non da queste aggressioni, i deficienti non si debellano a suon di legge, ma che nel suo legittimare la realtà ponga chiaramente un limite al senso di “essere in diritto di” di chi degli attacchi omofobici fa pane quotidiano (dal ragazzino di 15 anni all’ex ministro in diretta tv). O una legge che ne legittimi le unioni, e che una volta legittimate non potrebbero più essere archiviate con facilità come contro l’ordine sociale.

Andrea quindi è morto perchè viveva una situazione per lui intollerabile, giudicatela una “scemata”, giudicatela vigliaccheria, ma per lui, come per tanti giovani sempre di più  per vari motivi  rinunciare alla vita sembra più facile che affrontare quella situazione. E se lo pensano è perché quelli che dovrebbero essere i loro punti di riferimento (famiglia, scuola, amici) nel caso dell’omosessualità in primis, diventano i primi carnefici.
E ci si sente terribilmente soli ed impotenti. E ci si vergogna. Ci si vergogna di quello che si è e di come si appare. Pensiamo anche alle ragazzine abusate che chiuse nella loro vergogna e nell’impossibilità di denunciare una cosa di cui si sentono in colpa, preferiscono togliersi la vita. Solo ieri si riparlava di Carmela.

E poi un altro aspetto. Il cyber bullismo. Lo si sottovaluta nel parlar comune ma al giorno d’oggi fa più danni del bullismo reale. La tua vita, la tua immagine, la tua intimità viene sbattuta in prima pagina alla voyeristica disponibilità dei vari avventori di questo bar mediatico che è internet.

Ed è senza limiti, senza freno. E per questo ancor più pericoloso.

Non è importante se Andrea fosse gay. Importa che un ragazzo di 15 ha sentito che l’unica via d’uscita, l’unica cosa a cui appigliarsi per uscire da quella situazione non fosse una persona cara o stimata, ma una sciarpa a cui si è appeso.

Io mi sento responsabile e questa responsabilità mi pesa sul cuore. Perchè spesso quei ragazzi sono figli di miei coetanei oltretutto. E io mi chiedo, dove abbiamo sbagliato. Perchè che si sia sbagliato qualcosa mi pare inconfutabile.

 

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Sonia Bertinat

Psicologa Psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico. Da anni mi occupo di dipendenze da sostanza e comportamentali. In parallelo mi occupo di tematiche LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) e dell'impatto delle nuove tecnologie sulla vita intrapsichica e relazionale delle persone.

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