L’aver intitolato un post sulla comunicazione chiara e priva di giudizio usando un termine poco usuale potrebbe sembrare una contraddizione ma mi girava in testa e non ne ho trovato uno più azzeccato. Quindi andiamo a definirlo, come prima cosa.
ex cathedra ‹eks kàtedra› locuz. lat. (propr. «dalla cattedra»). – (…) nell’uso comune, parlare, sentenziare ex cathedra, in modo dogmatico, con sussiego e perentorietà. Anche in senso proprio «dalla cattedra» e senza sign. peggiorativo: le lezioni ex cathedra sono assai meno efficaci delle esercitazioni di seminario. (Treccani)
Mercoledì sono andata ad un corso su Social media e videogiochi. All’interno del corso, durante i lavori di gruppo, ci hanno proposto cinque video sull’uso dei dispositivi digitali e ci hanno chiesto di sceglierne uno, di dire perché secondo noi era significativo rispetto al digitale contemporaneo, di dargli un tag e di scegliere un’immagine che lo sintetizzi.
Il mio gruppo, a maggioranza, sceglie un video sul whatsapp down (il cui tono era “che mondo di automi che sono”) ma io avrei scelto questo
Perché? Perché mi sembrava l’unico che non poneva un giudizio sulle azioni “biasimate” ma proponeva un’azione paradossale per stimolare la riflessione. “Ti faccio provare cosa provo” anziché darti un giudizio, appunto, ex cathedra. Il rimando dei conduttori è stato rivolto all’impatto di campagne di prevenzioni che risultino giudicanti (un esempio ultimo, il #fertilityday).
Non sono le campagne di prevenzione l’oggetto di questo post ma il modo di porsi nei confronti del proprio pubblico/cliente. Facendo interventi sui rischi del digitale a scuola so bene quanto l’atteggiamento privo di giudizio sia fondamentale per attivare la riflessione e ovviare alla chiusura comunicativa.
Francesco Ambrosino, nel post odierno sul suo blog ci ricorda che non dobbiamo mai dimenticare come dal punto zero siamo partiti anche noi, che non possiamo mai dirci arrivati (aggiungo che sarebbe una tristezza) ma al massimo a tot passi da quel punto zero.
L’atteggiamento supponente del credersi arrivato, o parte di una nicchia di eletti a cui chiunque dovrebbe rivolgersi perché… siamo il meglio, crea distanza, distanza comunicativa che è sia verbale sia, soprattutto, emotiva.
Tra i colleghi spesso vedo questa tendenza: ci si accanisce contro l’improvvisatore di turno che viene scelto dalle persone al nostro posto. Ora, oltre al pacifico discorso che l’abuso professionale è un reato, mi sembra che manchi uno spostamento tra l’accusare l’esterno e una sana riflessione sulle proprie mancanze o difficoltà.
Una semplice domanda: “Cosa, ma soprattutto, come vengono proposti i servizi di coloro che accusiamo e come li proponiamo noi?”.
Riflettere sul come cambiare le proprie modalità e contesti comunicativi non implica svalutare un’aurea professione, ma, nel rispetto della deontologia e della veridicità di ciò che si afferma, far sì che sia divulgabile.
Uno degli intenti del mio blog è proprio questo. Parlare alle persone di psicologia in modo comprensibile. La psicologia per troppo tempo è stata correlata al patologico, all’essere “pazzi”, ma la psicologia sia occupa sopratutto del benessere delle persone, di quegli inciampi che incontriamo nella nostra vita e che, per un attimo, bloccano il nostro cammino di crescita, dello stretto legame tra mente e corpo.
Una buona comunicazione deve far passare questo messaggio, anche curando la terminologia che usiamo.
Se io dico che ‘mi occupo di addiction per cui il discontrollo degli impulsi può esitare in gambling behavior, quanti capiscono?
Se invece dico che mi occupo di comportamenti che ci possono far perdere il controllo, come nel caso del gioco d’azzardo, e mettere a rischio il nostro benessere, forse si capisce meglio.
Non ho detto nulla di non vero. Solo ho evitato i termini tecnici che sono utili in un discorso all’interno della comunità scientifica ad esempio o che rischiano di essere patologizzanti.
Il caso del “gender” rende chiara l’idea di come un termine di cui non si afferra pienamente il significato può essere usato per veicolare significati che non gli appartengono e diventare qualcosa di temuto.
Occupandomi anche di promozione professionale, cerco di prestare attenzione a tutto ciò. E come dice Ambrosino, tutti gli errori che consiglio di non fare, li ho fatti anche io all’inizio (gli stessi articoli con cui ho aperto il blog spesso mi fanno rabbrividire, ma fanno parte del mio percorso). E non è facile, perché siamo molto abituati a parlare tra di noi in termini tecnici ma non a parlare con termini semplici (e non semplicistici).
Il pericolo, poi, dell’ergersi a giudice, dimenticando di essere stato nella parte del giudicato, è quello di sentirsi troppo sicuro di sé, di pensare che certi errori non li faremo mai più. Interessante a questo proposito un video di Taxi1729 sull’eccessiva sicurezza di sè (o overconfidence).
[Tweet “Ricorda: quando punti il dito per condannare, tre dita rimangono puntate verso di te. Prov. cinese”]
Foto in evidenza creata da PR Grafica
Sonia Bertinat
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