Recitava così una frase della canzone Teorema di Ferradini.
Chi è più forte in una coppia?
Chi lascia?
Chi rimane?
Chi ama meno?
Sono domande a cui difficilmente si riuscirà a rispondere perché ognuno nutrirà in sé la propria intima e personale verità.
Ma forse sono domande che non vanno poste. In una coppia stabilire rapporti di forza in ogni caso preclude un buon equilibrio relazionale. E la soggettività rende vano ogni tentativo di dare un peso ai sentimenti.
Soprattutto, sono domande che spesso insorgono dopo una delusione amorosa, una rottura di una relazione. “Tu parli da uomo ferito” dice sempre la canzone.
Si deve dare la colpa a qualcuno per poter arginare il dolore perché in quel momento l’onda che ci sommerge obnubila ogni capacità di raziocinio e ancor di più di messa in discussione di noi stessi.
Molto spesso una relazione che finisce non ha una colpa polarizzata; se la si analizza a mente fredda con un po’ di autocritica si vede sempre che la “colpa” sta da entrambe le parti, magari non con la stessa proporzione, ma sta da entrambe le parti.
Chi lascia, spesso, è il componente della coppia che ha visto più in là, che ha messo fuori la testa dal nido coppia ed è riuscito a vederla dal di fuori e notare ciò che strideva.
La differenza ovviamente la fanno le modalità di affrontare la situazione per chi ha avuto questa visione altra. Si può affrontare la cosa con decisione e provare a portare l’altro a vedere con noi o interrompendo quella che è una relazione non funzionale. In altri casi, meno felici, si mantiene la situazione per inerzia mettendo in atto tradimenti ad esempio, fughe dalla relazione.
La parte “cieca” vuole continuare a vivere la sua cecità e si aggrapperà ad ogni spiraglio per continuare a credere nella relazione.
Ma non sempre la comunicazione è ottimale e ci si fa male, molto male, con rancori, risentimenti senza limite.
La parte che lascia, premesso che non metta in atto comportamenti irrispettosi o dannosi per il partner, ha un peso doppio, la colpa di aver “visto”, la colpa di troncare sopportando il dolore che gli viene riversato addosso dal partner “cieco”.
Ho parlato con molte persone lasciate, persone cieche ai tempi, che col tempo hanno concluso che i partner aveva visto più lontano, che le premesse per una relazione serena non c’erano più, ma che non volevano vederlo, non volevano ammetterlo.
Lo sguardo sulla relazione che uno dei due partner (quando sono entrambi è la situazione ottimale ovvio) pone è come il passerotto fatto entrare nelle miniere per monitorare le esalazioni nocive. Quando il passerotto muore si capisce che quell’ambiente non è più sano, è diventato asfittico e non possiamo più viverci dopo aver tolto il velo che ci proteggeva dalle esalazioni metaforiche e aver potuto sentire da una posizione esteriore.
Essere lasciati (lo abbiamo provato quasi tutti) permette di lasciar scorrere il dolore, tutti ci sostengono, tutti ci capiscono. Questo dolore, a chi lascia, non è concesso. Come se la decisione di porre fine ad una relazione sia una decisione asettica, anestetizzata, chirurgica. Si pensa che se si lascia è perché non si prova più sentimenti per il partner. Ma a volte ci si rende conto che tali sentimenti sono connotati da profondo affetto e non più amore.
Come dicevamo al’inizio, è difficile definire chi è più o meno forte o chi ha più o meno colpa.
Quello che ci accomuna è il dolore.
Il “dolore è come la corrente di un fiume in cui si è immersi” mi diceva una cara amica, ed è da vivere per com’è; “se cerco di pensare ai come e ai perché è come cercare di nuotare contro corrente e mi sfinisco. Quindi io ora mi sto solo lasciando trasportare perché è normale che si soffra. Mi sto lasciando trasportare per riprendere un po’ di forze. Piango quando ho voglia parlo quando posso, rido quando me la sento. Non combatto il dolore non risalgo la corrente.” ogni tanto nel fiume incappiamo in un sasso, grande o piccolo e ci aggrappiamo per riposarci o forse solo per fermarci “prima di arrivare alle rapide”.
I sassi possono essere gli amici, le persone care, gli hobbies, il lavoro, lo sport; ma sono solo un appiglio che ci permette di riposare, non un rimedio per annullare il dolore perchè “se non si sta male, non si elabora il dolore e non si guarisce mai. Se ti tagli, esce il sangue, e lo devi far uscire per pulire la ferita, altrimenti ti farà male più a lungo”.
Chi lascia, quella ferita la apre, la mantiene aperta ogni volta che rifiuta di tornare sui suoi passi (e il nostro dolore tiene aperta la sua ferita e viceversa). Ma prima o poi abbasseremo gli occhi sulla ferita, forse proprio quando ci fermiamo aggrappandoci a un sasso più rassicurante, e cominceremo a prendercene cura. Ed é a questo che può servire rivolgersi a un professionista che ci aiuti in questo processo di elaborazione, un processo in cui ci si può immergere nel dolore e nei significati che porta con sé per poter riemergere non solo in piccole soste ma in modo definitivo. Man mano che la ferita si rinsalda, e il nostro dolore viene meno, la lucidità ritorna e possiamo riflettere su quanto è accaduto. Possiamo lasciare le lacrime, o riservarle a circoscritti momenti di sconforto, e cominciare a vedere la relazione che è stata dal di fuori. Spesso a quel punto si capisce. E se i sentimenti erano buoni, la comunicazione salva e i comportamenti rispettosi, si può ritrovare un dialogo con l’altra persona, un dialogo che può arricchirci di aspetti che ignoravamo.
Chiudere con rancore, implica ignorare la ferita, occultarla, che, gioco forza, diventerà purulenta e ci scaverà dentro.
Voi in che posizione vi siete trovati? Avete lasciato? Siete stati lasciati? Come avete gestito il dolore?
Sonia Bertinat
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L’articolo è un po’ datato ma io mi trovo nel pieno della separazione proprio ora.
Appartengo al gruppo delle persone tradite e poi lasciate.
Dopo 9 anni di convivenza due splendidi bambini di 3 e 6 anni, un anno di matrimonio, dopo aver lottato per due anni e poi vinto contro un tumore di lei, aver superato una sua grave emorragia che l’ha portata ad un arresto cardiaco, dopo aver parlato a lungo di adottare un terzo figlio dopo tutto questo lei ha intrapreso una relazione con un collega lasciandosi scoprire quasi immediatamente.
Come molti nella mia situazione ho cercato di salvare il rapporto, ho vissuto la sua relazione extraconiugale con grande senso di colpa caricando su di me tutte le responsabilità della vicenda, prendendo come oro tutte le motivazioni vomitate dalla donna che amo (tuttora ne sono innamorato).
Dopo 4 mesi di vita nella stessa abitazione dove lei continuava la sua relazione con l’altro, anche se negava ma le prove raccolte erano schiaccianti, lei è finalmente o purtroppo andata via di casa.
la sua relazione continua e dopo solo due mesi nella sua nuova abitazione e sei mesi di relazione con l’altra persona ha pensato di presentare il suo “collega e amico” ai nostri figli (Di 3 e 6 anni).
Io alterno tristezza e rabbia e non percepisco in lei alcun rimorso, alcuna ferita, solo tanto rancore nei miei confronti.
Con l’aiuto di una terapeuta sono riuscito a scaricarmi del peso della colpa e ho visto le responsabilità di lei per quelle che sono.
Dice bene le colpe sono delle due persone ma non sempre equamente distribuite.
Diverso però è il giudizio morale che da la gente, se fosse stato il marito a: tradire, lasciare la casa, portare via quasi tutti i soldi dal conto non credo che l’opinione comune sarebbe stata: “nella coppia la colpa non è mai di uno solo…”. Io riconosco la mia colpa nel non aver visto arrivare questa crisi, nell’aver dato per scontata la mia compagna di vita ma mi sono perso dietro ai “ti amo”, “adottiamo un bambino”, “trasferiamoci in un altra città”, insomma ho visto i progetti futuri e non mi sono accorto che stesse arrivando la bufera.
Ora sono finalmente giunto alla fase della rabbia, ma è una rabbia triste, non battagliera quasi di rassegnazione…
Non vedo in lei il minimo sens di colpa, nemmeno verso i figli, e questo mi ferisce.
Mi domando come si possano dimenticare 10 anni felici e ricordarsi solo i momenti brutti, solo la rabbia ed il fastidio.
Mi ferisce essere costretto a ridisegnare la donna che fino a sei mesi fa era la mia forza in una persona per me pericolosa e nociva, quasi come una bestia feroce che potrebbe aggredirmi da un momento all’altro e usare i figli come strumento di ricatto.
Io non riconosco più quella donna, e mi domando se fosse sempre stata così ma io non riuscivo a vederla oppure se tutta l’energia spesa per superare la malattia e l’allontanarsi da me l’anno trasformata.
O forse sono i miei occhi ad essere diversi e la osservo da un?altra prospettiva.
Fabio
Author
Gentilissimo Fabio, mi scuso per il ritardo con cui vedo il suo commento che era finito nello spam non so per quale motivo. La ringrazio molto per questa sua dolorosa testimonianza e concordo con il fatto che le lenti con cui leggiamo la realtà ne modificano l’essenza.
Farsi aiutare a rielaborare i vissuti è il primo passo per farsi carico del nostro “pezzo” ma soprattutto per non coltivare ferite che alla lunga danneggiano più degli eventi.
Spero ad oggi stia un po’ meglio.
Un caro saluto