Confesso. Ho il brutto vizio di avere tante idee da scrivere ma di lasciarle per lo più in bozza per i vari motivi che di volta in volta mi racconto.
Oggi ho ricevuto un affettuoso rimprovero in merito, in uno scambio di commenti in cui affermavo proprio questo mio vizio e un commento è stato:
“Odio le bozze! Gli articoli devono uscire dai loro “bozzoli” ;)”
Quei rimandi che ti aprono connessioni che fino ad allora non avevi visto.
Sì, perché tenere i post in bozza (quando non lo si fa per una programmazione pensata) è come rimanere nel bozzolo insieme alle proprie idee. Non sentirle abbastanza idonee, profonde, appropriate, non pronte in attesa di una illuminazione che non arriverà mai.
Questo accade spesso anche nella nostra vita: rimaniamo chiusi nel bozzolo che di volta in volta ci costruiamo dicendo che stiamo solo aspettando il momento di uscire. Quando saremo pronti. Oppure quel bozzolo ce lo teniamo ben saldo perché sì ci limita, a volte ci soffoca. Ma lo conosciamo, ne abbiamo familiarità e ciò che sta fuori, la forma che prenderemmo fuori ci fa paura.
Se lo stare nel bozzolo non risponde solo ai limiti fisiologici della nostra ricarica o rinascita, diventa una calda e rassicurante gabbia che ci imprigiona.
Questi bozzoli assumono varie forme. A volte sono le nostre vite insoddisfacenti, ma senza sorprese negative, con i nostri lavori frustranti o le nostre relazioni che non ci nutrono più. In altri casi è il “si è sempre fatto così” a livello sociale a farci pensare impossibile il cambiamento. Oppure, anche se sembra impossibile, sono le malattie o le sofferenze psichiche. Oh so bene che su questo molti leverebbero la voce dicendo “Come osi! Io ne farei a meno” di stare male. E non dico che non sia una voce sincera. Ma non parla il linguaggio di tutte le nostre parti. E, spesso, c’è una parte in noi che ci sabota, che non vuole guarire, cambiare vita, osare, perché ha paura. Non vuole lasciare il conosciuto per quello che vede come un salto nel buio.
In psicoterapia, è questa voce la più dura da sconfiggere. Non la sofferenza. E il primo passo è riconoscerla. Riconoscere questa paura del cambiamento, dell’uscire fuori, mostrarsi per quello che si è, con tutti i nostri umani difetti e mancanze, certo, ma anche con le nostre individuali potenzialità.
A volte riusciamo da soli a svegliarci, seguire il ritmo fisiologico della rigenerazione (perché il bozzolo serve a questo) e piano piano infrangere il bozzolo e uscire. Capita invece che vi si resti imbrigliati perché la voce che ci spinge a uscire è troppo debole. E allora ci serve un aiuto. Qualcuno che lentamente ci aiuti ad aprire un varco, che ci permetta di vedere il fuori e, sempre lentamente, uscirne assorbendo le ultime energie che l’involucro ci deve dare nel passaggio. Questo aiuto è molto pericoloso però se non fatto con cura. Come la fiaba della farfalla e del buon uomo che la vuole aiutare, se si apre il bozzolo troppo velocemente, si rischia di danneggiare chi è nel bozzolo, se non è sufficientemente attrezzato per volare via.
Di nuovo, in psicoterapia, è questo il lavoro del terapeuta. Non incidere bruscamente l’involucro, anche se si vede che limita la persona che vi sta dentro. Ma aiutare chi vi è rinchiuso a rafforzarsi al punto di aprirlo. Solo quando si è sicuri che la forza sia sufficiente si può aiutare nell’uscire. A volte anche forzando leggermente. Mai prima.
E voi? Quando avete rotto il bozzolo?
E se ci siete ancora dentro, e sentite la voce che vi dice di uscire, non crogiolatevi troppo nel conosciuto ma cominciate a rafforzarvi, trovate fiducia in voi, e volerete. E non abbiate timore nel chiedere aiuto. Le forze che vi faranno uscire alla fine saranno le vostre, anche se ora pensate di non averle.
Sonia Bertinat
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